Parafrasi e Analisi: "Canto XXXI" - Inferno - Divina Commedia - Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto XXXI dell'Inferno di Dante Alighieri affronta un tema di grande intensità e solennità, incentrato sulle dinamiche del tradimento e della corruzione politica. Ciò che emerge in questo canto è l'incontro di Dante con i giganti, che abitano il fondo del nono cerchio, simbolo di un potere prepotente e distruttivo. La figura del gigante rappresenta un paradosso: essere imponenti ma, allo stesso tempo, ostaggi della propria stessa natura, segnati da un peccato che ha coinvolto non solo il singolo, ma le strutture stesse della società e della storia. In questo contesto, Dante esplora il confine tra l'umanità e la divinità, riflettendo sulla tentazione del potere assoluto e sulle sue devastanti conseguenze. Il Canto si inserisce nel percorso di discesa verso la profondità dell'Inferno, dove il peccato si manifesta con sempre maggiore gravità e la giustizia divina si fa più inesorabile.
Testo e Parafrasi
Una medesma lingua pria mi morse, sì che mi tinse l'una e l'altra guancia, e poi la medicina mi riporse; così od'io che solea far la lancia d'Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia. Noi demmo il dosso al misero vallone su per la ripa che 'l cinge dintorno, attraversando sanza alcun sermone. Quiv'era men che notte e men che giorno, sì che 'l viso m'andava innanzi poco; ma io senti' sonare un alto corno, tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via seguitando, dirizzò li occhi miei tutti ad un loco. Dopo la dolorosa rotta, quando Carlo Magno perdé la santa gesta, non sonò sì terribilmente Orlando. Poco portäi in là volta la testa, che me parve veder molte alte torri; ond'io: «Maestro, di', che terra è questa?». Ed elli a me: «Però che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, avvien che poi nel maginare abborri. Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, quanto 'l senso s'inganna di lontano; però alquanto più te stesso pungi». Poi caramente mi prese per mano e disse: «Pria che noi siamo più avanti, acciò che 'l fatto men ti paia strano, sappi che non son torri, ma giganti, e son nel pozzo intorno da la ripa da l'umbilico in giuso tutti quanti». Come quando la nebbia si dissipa, lo sguardo a poco a poco raffigura ciò che cela 'l vapor che l'aere stipa, così forando l'aura grossa e scura, più e più appressando ver' la sponda, fuggiemi errore e cresciemi paura; però che, come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, così la proda che 'l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti, cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona. E io scorgeva già d'alcun la faccia, le spalle e 'l petto e del ventre gran parte, e per le coste giù ambo le braccia. Natura certo, quando lasciò l'arte di sì fatti animali, assai fé bene per tòrre tali essecutori a Marte. E s'ella d'elefanti e di balene non si pente, chi guarda sottilmente, più giusta e più discreta la ne tene; ché dove l'argomento de la mente s'aggiugne al mal volere e a la possa, nessun riparo vi può far la gente. La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma, e a sua proporzione eran l'altre ossa; sì che la ripa, ch'era perizoma dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto di sovra, che di giugnere a la chioma tre Frison s'averien dato mal vanto; però ch'i' ne vedea trenta gran palmi dal loco in giù dov'omo affibbia 'l manto. «Raphèl maí amècche zabí almi», cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenia più dolci salmi. E 'l duca mio ver' lui: «Anima sciocca, tienti col corno, e con quel ti disfoga quand'ira o altra passïon ti tocca! Cèrcati al collo, e troverai la soga che 'l tien legato, o anima confusa, e vedi lui che 'l gran petto ti doga». Poi disse a me: «Elli stessi s'accusa; questi è Nembrotto per lo cui mal coto pur un linguaggio nel mondo non s'usa. Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; ché così è a lui ciascun linguaggio come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto». Facemmo adunque più lungo vïaggio, vòlti a sinistra; e al trar d'un balestro, trovammo l'altro assai più fero e maggio. A cigner lui qual che fosse 'l maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto dinanzi l'altro e dietro il braccio destro d'una catena che 'l tenea avvinto dal collo in giù, sì che 'n su lo scoperto si ravvolgëa infino al giro quinto. «Questo superbo volle esser esperto di sua potenza contra 'l sommo Giove», disse 'l mio duca, «ond'elli ha cotal merto. Fïalte ha nome, e fece le gran prove quando i giganti fer paura a' dèi; le braccia ch'el menò, già mai non move». E io a lui: «S'esser puote, io vorrei che de lo smisurato Brïareo esperïenza avesser li occhi miei». Ond'ei rispuose: «Tu vedrai Anteo presso di qui che parla ed è disciolto, che ne porrà nel fondo d'ogne reo. Quel che tu vuo' veder, più là è molto ed è legato e fatto come questo, salvo che più feroce par nel volto». Non fu tremoto già tanto rubesto, che scotesse una torre così forte, come Fïalte a scuotersi fu presto. Allor temett'io più che mai la morte, e non v'era mestier più che la dotta, s'io non avessi viste le ritorte. Noi procedemmo più avante allotta, e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa, uscia fuor de la grotta. «O tu che ne la fortunata valle che fece Scipïon di gloria reda, quand'Anibàl co' suoi diede le spalle, recasti già mille leon per preda, e che, se fossi stato a l'alta guerra de' tuoi fratelli, ancor par che si creda ch'avrebber vinto i figli de la terra: mettine giù, e non ten vegna schifo, dove Cocito la freddura serra. Non ci fare ire a Tizio né a Tifo: questi può dar di quel che qui si brama; però ti china, e non torcer lo grifo. Ancor ti può nel mondo render fama, ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama». Così disse 'l maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese 'l duca mio, ond' Ercule sentì già grande stretta. Virgilio, quando prender si sentio, disse a me: «Fatti qua, sì ch'io ti prenda»; poi fece sì ch'un fascio era elli e io. Qual pare a riguardar la Carisenda sotto 'l chinato, quando un nuvol vada sovr'essa sì, ched ella incontro penda: tal parve Antëo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora ch'i' avrei voluto ir per altra strada. Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci sposò; né sì chinato, lì fece dimora, e come albero in nave si levò. |
La stessa lingua prima (pria) mi ferì (mi morse), facendomi arrossire (sì che mi tinse) entrambe le guance, e poi mi porse il rimedio (medicina); allo stesso modo ho sentito raccontare (od'io) che la lancia di Achille e di suo padre era solita (solea) prima causare (far... esser cagione) la ferita (trista... mancia), poi risanarla (buona mancia). Noi volgemmo le spalle (dosso) alla squallida bolgia (misero vallone), attraversando senza parlare (sanza alcun sermone) l'argine (ripa) che la circonda (cinge dintorno). Là (Quiv') vi era una luce crepuscolare (men che notte e men che giorno), in modo che lo sguardo (viso) arrivava a distinguere poco oltre (m'andava innanzi poco); ma io sentii un suono di corno così potente (un alto corno) da far sembrare debole (fioco) persino il tuono, il quale (suono) attrasse (dirizzò) verso un solo punto (un loco) i miei occhi, che seguivano (seguitando) la sua direzione (via) in senso a lui contrario (contra sé). Dopo la sanguinosa sconfitta (di Roncisvalle) (dolorosa rotta), quando Carlo Magno perdette il santo drappello (dei suoi paladini) (santa gesta), Orlando non suonò (il suo corno) con tale terribile intensità (sì terribilmente). Per poco tenni rivolta la testa in quella direzione (in là), così che mi parve di vedere molte alte torri; per cui (dissi): «Maestro, dimmi, che città (terra) è questa?». Ed egli: «Poiché ti inoltri con lo sguardo (trascorri) nelle tenebre troppo da lontano (da la lungi), avviene (avvien) che tu ti confondi (abborri) nel raffigurarti l'immagine (nel maginare). Se giungerai (ti congiungi) fin laggiù, ti renderai conto (vedrai ben) di come i sensi (senso) da lontano siano ingannevoli (s'inganna); perciò affrettati (te stesso pungi) maggiormente (alquanto più)». Poi mi prese premurosamente per mano e disse: «Prima di procedere, affinché (acciò che) la cosa ti sembri (paia) meno straordinaria (strano), sappi che non sono torri, ma giganti, e sono posti (son) intorno alla parete (ripa) del pozzo, confitti dall'ombelico in giù (giuso)». Come lo sguardo, quando si dissipa la nebbia, distingue (raffigura) a poco a poco ciò che il vapore nasconde (cela) addensando (stipa) l'aria (l'aere); così, attraversando con lo sguardo (forando) l'aria densa (grossa) e scura, man mano che mi avvicinavo (più e più appressando) all'orlo del pozzo (ver' la sponda), si allontanava (fuggiemi) l'errore e cresceva (cresciemi) la paura; dato che, come Monteriggioni si circonda (si corona) di torri sulla cinta muraria (cerchia tonda), così la parete (proda) che circonda il pozzo era sovrastata con metà della loro figura (di mezza la persona) dagli orribili giganti, che Giove ancora minaccia dal cielo quando tuona. Ed io già distinguevo (scorgeva) di uno di essi (d'alcun) la faccia, le spalle, il petto e gran parte del ventre, ed entrambe (ambo) le braccia lungo i fianchi (per le coste giù). Di certo la Natura, quando smise (lasciò) di creare (l'arte) simili esseri (animali), fece molto bene, perché tolse (per tòrre) a Marte simili guerrieri (essecutori). E se la Natura (ella) non teme (non si pente) (di creare) elefanti e balene, chi osserva attentamente (sottilmente) la giudica (la ne tene) ancora più giusta e avveduta (discreta); poiché dove la ragione (l'argomento de la mente) si unisce (s'aggiugne) alla volontà di fare il male (mal volere) e alla forza (possa), l'uomo non vi può opporre (far) alcuna difesa. La faccia del gigante (sua) mi sembrava lunga e grossa come la pigna (pina) di San Pietro a Roma, e le altre membra (ossa) erano ad essa proporzionate (a sua proporzione); in modo tale che la sponda del pozzo (ripa), che faceva da (ch'era) perizoma dall'ombelico (mezzo) in giù, mostrava nella parte superiore del corpo tanta altezza che tre Frisoni, (uno sopra l'altro), non avrebbero potuto vantarsi (s'averien dato mal vanto) di giungere fino ai capelli (chioma) (del gigante); poiché io ne vedevo trenta palmi abbondanti dalla spalla (dal loco in giù dov'omo affibbia 'l manto). «Raphèl maí amècche zabí almi», cominciò a gridare quella terribile (fiera) bocca, alla quale non si addicevano (si convenia) parole (salmi) più dolci. E la mia guida gli rispose: «Anima stolta, accontentati (tienti) del corno e sfogati con quello quando sei preso (ti tocca) dall'ira o da altro insano sentimento! Tastati (Cèrcati) intorno al collo e troverai la cinghia (soga) che lo tiene legato, e guarda il corno (lui) che ti attraversa tutto (ti doga) il grande petto». Poi disse a me: «Egli stesso si dichiara per ciò che è (s'accusa); questi è Nembrot, per il cui empio pensiero (mal coto) nel mondo non si parla (s'usa) più un solo (pur un) linguaggio. Lasciamolo (Lasciànlo) perdere e non parliamo inutilmente (a vòto): dal momento che ogni linguaggio è sconosciuto a lui come agli altri il suo, che non è comprensibile (noto) a nessuno (nullo)». Allungammo quindi il percorso (vïaggio) verso (vòlti) sinistra; e a un tiro (al trar) di balestra giungemmo al cospetto (trovammo) di un altro gigante, ancora più grande (maggio) e feroce (fero). Non so dire quale fabbro (maestro) l'avesse incatenato (cigner lui), ma egli (el) aveva il braccio sinistro (l'altro) legato (soccinto) davanti (dinanzi), e quello destro dietro, con una catena che lo teneva avvinto dal collo in giù, in modo da (sì che) avvolgerlo con cinque giri (infino al giro quinto) nella parte visibile del corpo ('n su lo scoperto). «Questo superbo volle sperimentare (esser esperto) la sua potenza contro il sommo Giove», disse il maestro, «per cui ora ha tale premio (merto)». Si chiama Efialte e fece le sue grandi imprese (prove) quando i giganti si ribellarono (fer paura) agli dèi; le braccia che allora agitò (menò) ora sono per sempre immobilizzate (già mai non move)». Ed io: «Se è possibile (S'esser puote) vorrei vedere direttamente (esperïenza avesser li occhi miei) lo smisurato Briareo». Ed egli rispose: «Vedrai qui vicino Anteo, che può parlare ed è slegato (disciolto), il quale ci depositerà (porrà) nel fondo dell'Inferno (d'ogne reo). Quello che tu vuoi vedere è molto più in là, è legato come questo (Efialte) e simile a lui, tranne nel fatto che (salvo che) sembra (par) più feroce nel volto». Non vi fu mai un terremoto (tremoto) tanto violento (rubesto) che scuotesse una torre così solida (forte), come Efialte velocemente (presto) si dimenò. In quel momento io temetti più che mai la morte, e sarebbe stata sufficiente (a farmi morire) (non v'era mestier più) la paura (dotta) se non avessi visto le catene (ritorte). Noi allora (allotta) procedemmo oltre e giungemmo presso Anteo, che, esclusa la testa, sporgeva (uscia fuor) dalla parete del pozzo (grotta) più di sette metri (ben cinque alle). «Tu che, nella fortunata valle che rese glorioso (fece... di gloria reda) Scipione quando Annibale venne vòlto in fuga (diede le spalle), portasti come preda moltissimi (mille) leoni, e che, se avessi partecipato (fossi stato) alla gigantomachia (l'alta guerra) con i tuoi fratelli, si dice (par che si creda) che i giganti (figli de la terra) avrebbero vinto: deponici (mettine) giù, non sdegnartene (non ten vegna schifo), dove il freddo (freddura) fa gelare (serra) Cocito. Non farci ricorrere (non ci fare ire) a Tizio o a Tifeo: costui (Dante) è in grado di dare ciò che nell'Inferno (qui) si desidera (si brama); perciò chinati e non storcere il naso (grifo). Questi può darti (render) fama sulla terra, dal momento che è ancora vivo (ch'el vive) e ha ancora molto da vivere (lunga vita ancor aspetta), a meno che (se) la grazia divina non lo chiami a sé prima del tempo». Così parlò il maestro; ed egli afferrò la mia guida dopo aver steso prontamente (in fretta) le mani di cui (ond') già Ercole sperimentò la grande forza (stretta). Quando si sentì (sentio) afferrare, Virgilio disse: «Avvicinati (Fatti qua), affinché io possa prenderti»; quindi fece in modo che io e lui formassimo un unico corpo (fascio). Quale appare la Garisenda se la si guarda stando sotto alla parte inclinata (sotto 'l chinato), quando le nuvole le passano sopra in direzione opposta a quella dell'inclinazione (ched ella incontro penda), tale sembrò Anteo a me, che stavo attento (stava a bada) a vederlo chinare, e fu un momento così terribile (tal ora) che avrei voluto andare per un altra strada. Ma egli ci posò (sposò) delicatamente sul fondo del cerchio che inghiotte (divora) Lucifero e Giuda; e non rimase chinato in quella posizione (lì fece dimora), ma (e) si rialzò dritto come l'albero di una nave. |
Riassunto
Versi 1-6: La Lancia di Achille
Le parole di Virgilio hanno suscitato in Dante una reazione ambivalente: inizialmente lo hanno fatto sentire in imbarazzo, ma subito dopo lo hanno anche rincuorato, proprio come la lancia di Achille, che infliggeva una ferita con il primo colpo e con il secondo la guariva.
Versi 7-45: I Giganti
I due poeti si avvicinano all'argine che separa l'ottavo dal nono cerchio. Un suono potente di corno risuona nell'aria, e a Dante sembra provenire da una città fortificata. Virgilio gli spiega che quelle torri sono in realtà i Giganti, che sono conficcati fino all'ombelico nel pozzo centrale di Malebolge. Con il progredire del cammino, Dante avverte dentro di sé una crescente sensazione di paura.
Versi 46-81: Il Gigante Nembrot
Il primo gigante che incontrano è Nembrot, il quale grida frasi incomprensibili («Raphèl maí amècche zabí almi»). Nembrot è tradizionalmente associato alla Torre di Babele, il cui progetto aveva causato la confusione delle lingue. In base a questa tradizione, la sua pena consiste nell'essere incapace di comprendere o essere compreso da alcuna lingua.
Versi 82-111: Il Gigante Efialte
Proseguendo, Dante e Virgilio incontrano Efialte, uno dei Giganti che, insieme agli altri, cercò di scalare il cielo. Ora, però, è legato da una pesante catena che gli immobilizza le braccia. Dante, desideroso di vedere anche il gigante Briareo, viene informato da Virgilio che egli è troppo lontano e che la leggenda sulle sue cento braccia non è vera. Briareo, in effetti, appare simile a Efialte, sia nell'aspetto che nella punizione, anche se è più feroce. Alla menzione di Briareo, Efialte si scuote con rabbia, suscitando paura in Dante, che però si tranquillizza osservando le catene che lo tengono prigioniero.
Versi 112-145: Il Gigante Anteo
Arrivati davanti ad Anteo, Virgilio usa parole di lusinga per convincerlo a deporre i due poeti sul fondo ghiacciato del nono cerchio. Senza pronunciare parola, Anteo solleva i poeti con delicatezza e li lascia giù sul fondo del pozzo. Subito dopo, si rialza e riprende la sua posizione immobile, apparendo a Dante come il palo di una nave.
Figure Retoriche
v. 1 "Mi morse": Metonimia. Il concreto per l'astratto, "mi morse" invece di "mi rimproverò".
vv. 1-6 "Una medesma lingua pria mi morse, sì che mi tinse l'una e l'altra guancia, e poi la medicina mi riporse; così od'io che solea far la lancia d'Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia": Similitudine.
v. 7 "Noi demmo il dosso": Sineddoche. Il tutto per la parte, il dosso (schiena) anziché le spalle.
vv. 12-13 "Ma io senti' sonare un alto corno, tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco": Iperbole.
v. 33 "Umbilico": sineddoche. La parte per il tutto, l'ombelico anziché la pancia.
vv. 34-39 "Come quando la nebbia si dissipa, lo sguardo a poco a poco raffigura ciò che cela 'l vapor che l'aere stipa, così forando l'aura grossa e scura, più e più appressando ver' la sponda, fuggiemi errore e cresciemi paura": Simiitudine.
vv. 40-44 "Però che come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, così la proda che 'l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti": Similitudine.
vv. 58-59 "Lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma": Similitudine.
v. 61 "Sì che la ripa, ch'era perizoma": Metafora.
vv. 68-69 "Fiera bocca... dolci salmi": Antitesi.
v. 82 "Più lungo viaggio": Anastrofe.
v. 103 "Più là è molto": Anastrofe.
vv. 106-108 "Non fu tremoto già tanto rubesto, che scotesse una torre così forte, come Fialte a scuotersi fu presto": Similitudine.
v. 117 "Co' suoi diede le spalle": Metonimia. L'effetto per la causa.
vv. 136-141 "Qual pare a riguardar la Carisenda sotto 'l chinato, quando un nuvol vada sovr'essa sì, ched ella incontro penda; 138 tal parve Anteo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora ch'i' avrei voluto ir per altra strada": Similitudine.
v. 145 "E come albero in nave si levò": Similitudine.
Analisi ed Interpretazioni
Nel canto XXXI dell'Inferno, Dante e Virgilio attraversano il confine che separa l'VIII dal IX Cerchio, incontrando i giganti che, come custodi della parte più bassa dell'Inferno, segnano una tappa cruciale nell'itinerario del poeta. Questi giganti, conficcati nella roccia fino alla cintola, rappresentano una sorta di anticipazione della figura di Lucifero, che giacerà al centro di Cocito nel Canto successivo. La loro presenza richiama la ribellione contro la divinità, simile a quella di Lucifero, che desiderava uguagliarsi a Dio, e riflette un parallelismo con le tradizioni biblica e classica, come nel caso di Nembrod, che nella Bibbia è erroneamente associato ai giganti e accusato di voler costruire la Torre di Babele per sfidare Dio. L'analogia tra Nembrod, Briareo e Lucifero come simboli di superbia punita viene richiamata dallo stesso Dante anche nel Purgatorio, dove questi giganti sono visti come un esempio di come la superbia si traduca in un destino di dannazione.
I giganti, pur essendo dotati di potenza fisica enorme, sono in realtà prigionieri della loro stessa natura: la loro immensa forza è inutile nel contesto infernale. La loro bestialità, priva di razionalità, li rende simili a Lucifero, che sarà descritto come un mostro peloso, divoratore delle anime dei traditori. Virgilio, durante il loro incontro, guida Dante nell'identificazione di alcuni di questi giganti: il primo che incontrano è Nembrod, che pronuncia parole prive di senso, simbolo della confusione delle lingue a Babele. A seguire, c'è Fialte, saldamente legato a catene, la cui reazione alla presenza dei poeti rimanda a un altro episodio mitologico, la battaglia di Flegra contro gli dèi, nella quale i giganti tentarono di sopraffare Giove. Infine, Anteo si distingue dagli altri: non coinvolto nella ribellione contro Dio, è libero di muoversi e, per questo, aiuta Dante e Virgilio a scendere nel fondo ghiacciato di Cocito, il nono cerchio dell'Inferno.
La figura di Anteo emerge come un essere privo di volontà, un "burattino" che obbedisce passivamente al volere divino. La sua funzione è quella di un mezzo per permettere ai poeti di proseguire il loro viaggio, simile agli altri personaggi che incontrano lungo il cammino, simboli di una giustizia divina che non lascia spazio alla ribellione. Virgilio, con un discorso lusinghiero, convince Anteo ad aiutarli, lodando le sue imprese e facendogli credere che, se avesse preso parte alla battaglia contro Giove, i giganti avrebbero vinto. Tuttavia, questo discorso non è privo di ironia: Anteo, pur essendo una figura potente, è ridotto a strumento passivo del destino voluto da Dio, il quale utilizza anche la sua forza per portare i poeti più vicino al centro dell'Inferno, dove Lucifero attende.
Il canto segna un momento di transizione nella rappresentazione dell'Inferno. Dopo il tumulto di Malebolge, che aveva permesso a Dante di sperimentare un linguaggio più comico e realistico, l'incontro con i giganti segna un ritorno a un tono più alto e severo, come dimostrano le similitudini epiche tratte dalla tradizione classica, come quella della lancia di Achille e la sconfitta di Roncisvalle. La paura che suscita la visione dei giganti, e la tensione crescente che accompagna il passaggio dal mondo infernale alla presenza sempre più minacciosa di Lucifero, sono contrapposte alla sensazione di impotenza che caratterizza i giganti stessi. La loro imponente fisicità è inutile e la loro posizione nella roccia simboleggia la loro condanna. La paura di Dante è alternata a momenti di consolazione, quando Virgilio sdrammatizza la situazione, come quando Nembrod viene descritto come uno sciocco o quando Fialte viene reso innocuo dalle catene.
Il passaggio attraverso il regno dei giganti, così come la figura di Anteo che aiuta i poeti, anticipa l'ultimo incontro con Lucifero, l'emblema del male e della ribellione definitiva contro Dio. I giganti rappresentano la culminazione di un percorso infernale, dove l'orgoglio e la superbia si mescolano alla passività e alla condanna, e preparano il terreno per l'incontro finale con il principe dei dannati, che chiuderà in modo paradossale il ciclo di sofferenza dell'Inferno.
Passi Controversi
I versetti 4-6 si riferiscono al mito della lancia di Achille, che apparteneva inizialmente al padre Peleo, e che aveva il potere di curare le ferite inflitte con il primo colpo, tramite un secondo intervento. Questo paragone era comune nella letteratura del Duecento e Trecento, specialmente per descrivere il bacio dell'amata. Il termine "mancia" è probabilmente un francesismo e indica una «prova d'armi» o «assalto».
L'espressione nei versetti 14-15 non è completamente chiara, ma il significato generale può essere interpretato come: «il corno indirizzò il mio sguardo verso un unico punto, seguendo la direzione del suono che procedeva in senso opposto».
La similitudine nei versetti 16-18 proviene dalla Chanson de Roland, un poema epico in antico francese che Dante potrebbe aver conosciuto indirettamente. In essa, Orlando, poco prima di morire nella battaglia di Roncisvalle, suona il corno per richiamare i rinforzi.
Montereggioni, citato al versetto 40, è un piccolo borgo in Valdelsa, che nel XIII secolo era protetto da una serie di mura dotate di 14 torri.
Al versetto 59, si fa riferimento alla "pina di S. Pietro", una grande pigna di bronzo alta più di quattro metri, che decorava il mausoleo di Adriano o forse il Pantheon. Papa Simmaco la aveva collocata davanti alla basilica di San Pietro, e oggi si trova all'interno del Vaticano.
I versetti 63-64 alludono alla credenza medievale secondo cui gli abitanti della Frisia fossero i più alti tra gli uomini. Si diceva che tre di loro, sovrapposti, non riuscissero a coprire l'altezza della cintola alla fronte di Nembrod.
Le parole di Nembrod al versetto 67 sono incomprensibili, come Virgilio spiega successivamente. Tuttavia, potrebbero richiamare delle parole ebraiche.
Nei versetti 103-105, Virgilio corregge una sua precedente affermazione su Briareo, spiegando che il suo aspetto è simile a quello di Fialte e che non è quindi un centimano, come precedentemente descritto nell'Eneide (X, 565-568).
Il termine "dotta" (v. 110) deriva dal provenzale e significa «paura», un termine che si trovava anche nei poeti del Duecento sotto forma di "dottanza".
Tizio e Tifo (Tifeo) sono due titani della mitologia: il primo fu fulminato da Apollo per aver osato sfidare Latona, mentre l'altro fu abbattuto da Giove e seppellito sotto l'Etna. In Paradiso (VIII, 67-70), Dante accenna a questa leggenda, sottolineando che le eruzioni del vulcano sono dovute al solfuro, non a un gigante.
Il fenomeno descritto nei versetti 136-138 è un'illusione ottica che si verificava frequentemente per chi passava sotto la torre della Garisenda a Bologna. All'epoca, questa torre era molto più alta e inclinata, e chi la osservava da sotto, vedendo una nuvola passare dietro di essa in direzione opposta, aveva l'impressione che stesse per crollare.
Fonti: libri scolastici superiori