Parafrasi e Analisi: "Canto XXXIV" - Inferno - Divina Commedia - Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Personaggi Principali
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Siamo giunti alla conclusione della prima cantica, e Dante sta per incontrare Lucifero. Come in un film horror o in un videogioco, ci troviamo di fronte al "boss finale". L'idea di scoprire l'aspetto e la natura del re dell'Inferno genera un'attesa carica di tensione, sia nel Dante-personaggio che nei lettori. L'impressione è quella di entrare nella sala macchine di una gigantesca nave: stiamo per osservare il "motore del male" in azione, se così si può dire. Dante sottolinea la visione di un meccanismo freddo e privo di senso vitale, incapace di amare, un'immagine che trasmette il vuoto esistenziale del male stesso. Il terrore suscitato da Lucifero, infatti, non risiede tanto nel suo aspetto fisico quanto nel potente simbolismo che lo accompagna.
Tutte le anime dell'Inferno hanno, in un momento della loro esistenza, abbracciato il male, condannandosi così alla dannazione eterna. Questo le rende perennemente consapevoli dell'occasione perduta: la vita stessa. Il desiderio di tornare indietro è continuo, ma irrealizzabile, generando un dolore infinito che si alimenta incessantemente senza mai trovare uno sfogo. Proprio come Lucifero, che soffre e fa soffrire in eterno, il tormento delle anime si rinnova senza tregua, in un ciclo interminabile.
La vera paura nasce dal significato che Lucifero incarna. Le sue ali di pipistrello, simili a pale di un mulino, evocano un movimento verso il vuoto, rappresentando l'inutilità assoluta, lo spreco della vita e l'occasione irrimediabilmente persa. Non è tanto il suo aspetto a colpirci, quanto ciò che rappresenta: il simbolo supremo del fallimento dell'esistenza e del vuoto che si genera quando ci si allontana dal bene.
Testo e Parafrasi
«Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira», disse 'l maestro mio «se tu 'l discerni». Come quando una grossa nebbia spira, o quando l'emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che 'l vento gira, veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro al duca mio; ché non lì era altra grotta. Già era, e con paura il metto in metro, là dove l'ombre tutte eran coperte, e trasparien come festuca in vetro. Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; altra, com'arco, il volto a' piè rinverte. Quando noi fummo fatti tanto avante, ch'al mio maestro piacque di mostrarmi la creatura ch'ebbe il bel sembiante, d'innanzi mi si tolse e fé restarmi, «Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco ove convien che di fortezza t'armi». Com'io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, però ch'ogne parlar sarebbe poco. Io non mori' e non rimasi vivo: pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno, qual io divenni, d'uno e d'altro privo. Lo 'mperador del doloroso regno da mezzo 'l petto uscìa fuor de la ghiaccia; e più con un gigante io mi convegno, che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quant'esser dee quel tutto ch'a così fatta parte si confaccia. S'el fu sì bel com'elli è ora brutto, e contra 'l suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui proceder ogne lutto. Oh quanto parve a me gran maraviglia quand'io vidi tre facce a la sua testa! L'una dinanzi, e quella era vermiglia; l'altr'eran due, che s'aggiugnieno a questa sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla, e sé giugnieno al loco de la cresta: e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla. Sotto ciascuna uscivan due grand'ali, quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vid'io mai cotali. Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, sì che tre venti si movean da ello: quindi Cocito tutto s'aggelava. Con sei occhi piangea, e per tre menti gocciava 'l pianto e sanguinosa bava. Da ogne bocca dirompea co' denti un peccatore, a guisa di maciulla, sì che tre ne facea così dolenti. A quel dinanzi il mordere era nulla verso 'l graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla. «Quell'anima là sù c'ha maggior pena», disse 'l maestro, «è Giuda Scariotto, che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena. De li altri due c'hanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo è Bruto: vedi come si storce, e non fa motto!; e l'altro è Cassio che par sì membruto. Ma la notte risurge, e oramai è da partir, ché tutto avem veduto». Com'a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste, e quando l'ali fuoro aperte assai, appigliò sé a le vellute coste; di vello in vello giù discese poscia tra 'l folto pelo e le gelate croste. Quando noi fummo là dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de l'anche, lo duca, con fatica e con angoscia, volse la testa ov'elli avea le zanche, e aggrappossi al pel com'om che sale, sì che 'n inferno i' credea tornar anche. «Attienti ben, ché per cotali scale», disse 'l maestro, ansando com'uom lasso, «conviensi dipartir da tanto male». Poi uscì fuor per lo fóro d'un sasso, e puose me in su l'orlo a sedere; appresso porse a me l'accorto passo. Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com'io l'avea lasciato, e vidili le gambe in sù tenere; e s'io divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede qual è quel punto ch'io avea passato. «Lèvati sù», disse 'l maestro, «in piede: la via è lunga e 'l cammino è malvagio, e già il sole a mezza terza riede». Non era camminata di palagio là 'v'eravam, ma natural burella ch'avea mal suolo e di lume disagio. «Prima ch'io de l'abisso mi divella, maestro mio», diss'io quando fui dritto, «a trarmi d'erro un poco mi favella: ov'è la ghiaccia? e questi com'è fitto sì sottosopra? e come, in sì poc'ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?». Ed elli a me: «Tu imagini ancora d'esser di là dal centro, ov'io mi presi al pel del vermo reo che 'l mondo fóra. Di là fosti cotanto quant'io scesi; quand'io mi volsi, tu passasti 'l punto al qual si traggon d'ogne parte i pesi. E se' or sotto l'emisperio giunto ch'è contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto fu l'uom che nacque e visse sanza pecca: tu hai i piedi in su picciola spera che l'altra faccia fa de la Giudecca. Qui è da man, quando di là è sera; e questi, che ne fé scala col pelo, fitto è ancora sì come prim'era. Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse, per paura di lui fé del mar velo, e venne a l'emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui loco vòto quella ch'appar di qua, e sù ricorse». Luogo è là giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono è noto d'un ruscelletto che quivi discende per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso, col corso ch'elli avvolge, e poco pende. Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo, salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch'i' vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle. |
Il mio maestro disse: «I vessilli del re dell'Inferno (Lucifero) si avvicinano a noi; quindi guarda davanti a te, se riesci a vederlo». Come quando c'è una nebbia fitta o quando nel nostro emisfero cala la notte, e appare in lontananza un mulino che è mosso dal vento, così allora mi parve di vedere una simile costruzione; quindi per il vento mi riparai dietro la mia guida, visto che non c'era nessun altro rifugio. Ormai mi trovavo, e lo scrivo con paura nei miei versi, nella zona (Giudecca) dove le anime erano del tutto sepolte nel ghiaccio, e trasparivano come pagliuzze nel vetro. Alcune sono sdraiate, altre sono dritte, a volte con la testa alta e a volte con i piedi; altre ancora portano il volto ai piedi, piegandosi come un arco. Quando fummo avanzati fino al punto in cui al mio maestro parve opportuno mostrarmi la creatura che fu così bella, si tolse di fronte a me e mi fece fermare, dicendo: «Ecco Dite ed ecco il luogo dove è necessario che tu ti armi di coraggio». Non domandare, lettore, come io in quel momento raggelai e ammutolii: non lo scrivo, poiché ogni parola sarebbe inadeguata. Io non morii e non rimasi in vita: pensa oramai da te, se hai un po' d'ingegno, come divenni in quello stato sospeso tra la vita e la morte. L'imperatore del regno del dolore usciva fuori dal ghiaccio fino alla cintola; e c'è maggior proporzione fra me e un gigante che non fra i giganti e le sue braccia: vedi ormai, rispetto a quella parte del corpo, quali devono essere le dimensioni totali di quell'essere. Se egli fu tanto bello quanto ora è brutto, e nonostante questo osò ribellarsi al suo Creatore, è giusto che da lui derivi ogni male. Oh, quanto mi meravigliai quando vidi che la sua testa aveva tre facce! Una era al centro ed era rossa; le altre erano due e si congiungevano alla prima a metà di ogni spalla, e si univano nella parte posteriore del capo: la destra mi sembrava tra bianca e gialla; la sinistra era del colore di quelli che vengono dal paese (Etiopia) dove il Nilo entra in una valle. Sotto ogni faccia uscivano due grandi ali, proporzionate a un essere tanto grande: non ho mai visto vele di navi così estese. Non erano piumate, ma sembravano quelle di un pipistrello; e Lucifero le sbatteva, producendo da sé tre venti: a causa di essi, tutto il lago di Cocito si ghiacciava. Piangeva con sei occhi e le lacrime gocciolavano sui tre menti, mischiato a una bava sanguinolenta. In ognuna delle tre bocche dilaniava coi denti un peccatore, come fosse una gramola, così che ne tormentava tre al tempo stesso. Per il peccatore al centro l'essere morso non era niente rispetto all'essere graffiato, al punto che talvolta la schiena gli restava tutta scorticata. Il maestro disse: «Quel dannato lassù che soffre una pena più grave è Giuda Iscariota, che tiene la testa dentro le fauci di Lucifero e fa pendere fuori le gambe. Degli altri due che hanno la testa rivolta in basso, quello che pende dalla faccia nera è Bruto: vedi come si contorce senza dire nulla! L'altro è Cassio, che sembra così robusto. Ma è quasi notte e ormai dobbiamo andare, poiché abbiamo visto ogni cosa». Come Virgilio volle, abbracciai il suo collo; ed egli attese il momento e il luogo opportuno, e quando le ali del mostro furono abbastanza aperte si aggrappò ai suoi fianchi pelosi; poi scese in basso tenendosi alle sue ciocche, passando tra il suo pelo folto e la crosta gelata di Cocito. Quando fummo arrivati nel punto in cui la coscia di articola nel bacino, all'altezza del femore, Virgilio, con fatica e affanno, volse la testa dove Lucifero aveva le gambe, e si aggrappò al suo pelo come uno che sale, così che io credevo tornassimo nuovamente all'Inferno. Il maestro, ansimando come un uomo affaticato, disse: «Tieniti forte, poiché dobbiamo allontanarci da tanto male (l'Inferno) salendo su queste scale». Poi uscì fuori attraverso una spaccatura nella roccia, e mi fece sedere sull'orlo dell'apertura; quindi diresse con attenzione il passo verso di me. Io alzai lo sguardo e credetti di vedere Lucifero come l'avevo lasciato, invece vidi che teneva le gambe in alto; e se io allora rimasi perplesso, lo pensi la gente ignorante, che non ha capito qual è il punto (il centro della Terra) che io avevo oltrepassato. Il maestro disse: «Alzati in piedi: la via è lunga e il cammino è malagevole, e il sole è già a metà della terza ora (sono le sette e mezza del mattino)». Il punto in cui eravamo non era un percorso agevole come in un palazzo, ma una cavità sotterranea che aveva il suolo impervio e ben poca luce. Quando mi fui alzato dissi: «Maestro mio, prima che io lasci l'abisso infernale, parlami un poco per risolvermi un dubbio: dov'è il ghiaccio? e Lucifero come può essere confitto così sottosopra? e come è possibile che il sole abbia percorso così in fretta il tragitto dalla sera alla mattina?» E lui a me: «Tu pensi ancora di essere al di là del centro della Terra, dove io mi sono aggrappato al pelo dell'orrendo animale che guasta il mondo. Tu sei stato di là finché io sono disceso; quando mi sono girato, tu hai oltrepassato il punto verso il quale tendono tutti i pesi del mondo. E ora sei giunto sotto l'emisfero (australe) che è opposto a quello (boreale) che copre le terre emerse, e dove, sotto il punto più alto dell'emisfero celeste (Gerusalemme), fu ucciso l'uomo (Gesù) che nacque e visse senza peccato: tu hai i piedi su una piccola sfera che ha la faccia opposta nella Giudecca. Qui è mattino, quando nell'altro emisfero è sera; e Lucifero, che col suo pelo ci ha fatto da scala, è confitto esattamente come lo era prima. Cadde giù dal cielo da questa parte e la terra, che prima emergeva dalle acque nell'emisfero australe, per paura di lui si nascose sotto il mare e venne nel nostro emisfero; e forse, per rifuggire da lui, quella che appare di qua lasciò questo spazio vuoto e riemerse nell'emisfero australe (formando il Purgatorio)». Laggiù c'è un luogo tanto lontano da Belzebù (Lucifero) quanto si estende la cavità sotterranea, che non si può vedere ma da cui si sente il suono di un fiumiciattolo (lo scarico del Lete) che scende qui attraverso una cavità che esso ha scavato nella roccia lungo il suo corso, che ha poca pendenza. Il maestro ed io entrammo in quel cammino nascosto per tornare alla luce del sole; e senza prenderci un attimo di riposo salimmo in alto, lui per primo e io dietro, fino a quando vidi gli astri del cielo attraverso un'apertura circolare. E di lì uscimmo per rivedere le stelle. |
Riassunto
Entrata nella zona di Cocito e visione di Lucifero
Giunti nell'ultima parte di Cocito, Virgilio avvisa Dante che sono ormai prossimi a incontrare Lucifero. L'atmosfera è avvolta da una fitta nebbia, rendendo quasi impossibile distinguere ciò che li circonda. L'unico elemento percepibile è il gelido vento prodotto dal battito delle ali del demonio caduto. Per ripararsi, Dante si posiziona dietro Virgilio, ma presto quest'ultimo si scosta, mostrando al poeta una figura imponente: è Lucifero stesso. La visione inizialmente appare indistinta, come un enorme mulino a vento in lontananza, che, per dimensioni e proporzioni, si staglia gigantesco come un moderno grattacielo.
Lucifero emerge dal ghiaccio in cui sono conficcati i traditori, mostrando solo la parte superiore del suo corpo. Possiede sei occhi, sei ali di pipistrello, e tre bocche enormi, con cui mastica incessantemente tre dannati: Giuda, traditore di Cristo, e Bruto e Cassio, traditori di Cesare e dell'Impero. Dai suoi occhi scendono lacrime eterne che si mescolano a bava e sangue, in un'immagine di sofferenza perpetua.
La scalata
Con la visione di Lucifero si raggiunge un momento cruciale dell'Inferno: Dante e Virgilio devono affrontare una risalita lungo il corpo del demonio, un'impresa che ricorda l'alpinismo moderno. Virgilio, come una guida esperta in cordata, solleva Dante e inizia a muoversi lungo il gigantesco corpo. Giunto all'altezza delle anche, si gira e cambia direzione, iniziando la risalita. Finalmente, riesce a portare Dante su una sporgenza rocciosa all'interno di una grotta.
La spiegazione e l'uscita dall'Inferno
Dante, inizialmente confuso, non comprende ciò che è accaduto: guarda Lucifero, ma vede le sue gambe rivolte verso l'alto. Virgilio chiarisce che hanno superato il centro della Terra e gli spiega che Lucifero si trova in quella posizione da quando, precipitando dal cielo, ha scavato la cavità dell'Inferno e, dall'altro lato, ha sollevato la montagna del Purgatorio. Attraverso un sentiero stretto, i due pellegrini emergono finalmente all'aperto, sotto un cielo stellato.
Figure Retoriche
v. 1: "Regis inferni": Perifrasi. Per indicare Lucifero.
vv. 4-7: "Come quando una grossa nebbia spira, o quando l'emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che 'l vento gira, veder mi parve un tal dificio allotta": Similitudine.
v. 7: "Veder mi parve": Anastrofe.
v. 12: "Trasparien come festuca in vetro": Similitudine.
v. 15: "Com'arco, il volto a' piè rinverte": Similitudine.
v. 21: "Fortezza t'armi": Anastrofe.
v. 25: "Io non mori' e non rimasi vivo": Antitesi.
v. 56: "A guisa di maciulla": Similitudine.
v. 80: "E aggrappossi al pel com'om che sale": Similitudine.
v. 83: "Ansando com'uom lasso": Similitudine
v. 90: "E vidili le gambe in sù tenere": Anastrofe.
v. 99: "Mal suolo": Anastrofe.
v. 99: "Lume disagio": Anastrofe.
v. 108: "Che 'l mondo fóra": Anastrofe.
v. 115: "L'uom che nacque e visse sanza pecca": Perifrasi. Per indicare Gesù, l'uomo che nacque e visse senza peccato.
v. 120: "Come prim'era": Anastrofe.
v. 124: "A l'emisperio nostro": Anastrofe.
Personaggi Principali
Ugolino della Gherardesca è stato un nobile pisano nato intorno al 1210 in una famiglia feudale di tradizione ghibellina. Nonostante queste origini, si avvicinò al partito guelfo, probabilmente grazie al legame familiare con il re di Sardegna Enzo, figlio di Federico II, di cui fu anche vicario. La sua amicizia con Giovanni Visconti, Giudice di Gallura e marito di sua figlia Giovanna, contribuì ulteriormente a questo cambiamento di schieramento politico.
Nel 1284, Ugolino prese parte alla battaglia navale della Meloria, dove Pisa subì una pesante sconfitta da parte di Genova, alleata di Firenze e Lucca. Alcuni lo accusarono di aver tentato di fuggire durante il conflitto, sollevando sospetti sulla sua fedeltà e coraggio. Nonostante queste voci, fu nominato podestà di Pisa lo stesso anno e, successivamente, capitano del popolo nel 1286. La sua posizione come leader guelfo in una città prevalentemente ghibellina favorì i negoziati di pace con Firenze e Lucca, anche se a costo di cedere alcuni castelli pisani.
Tuttavia, Ugolino ruppe l'alleanza con il nipote Nino Visconti per stringere un accordo con l'arcivescovo Ruggieri, capo della fazione ghibellina pisana. Questo patto si rivelò fatale: nel 1288 Ruggieri, insieme ad altre famiglie ghibelline, sobillò il popolo contro di lui. Ugolino venne tradito, arrestato e rinchiuso nella torre della Muda con due figli e due nipoti, dove morirono di fame nel marzo del 1289.
La figura di Ugolino è emblematica per la sua complessità: Dante Alighieri lo colloca nell'Antenòra, il cerchio infernale riservato ai traditori della patria e del partito. La colpa di Ugolino potrebbe riferirsi alla cessione dei castelli pisani o al suo passaggio dal partito ghibellino a quello guelfo. Tuttavia, nel Canto XXXIII dell'Inferno, Dante offre una rappresentazione ambivalente del conte: un uomo feroce e ambizioso, ma anche un padre straziato dalla sofferenza e dalla colpa per la tragica fine della sua famiglia.
Il monologo di Ugolino, uno dei più lunghi dell'Inferno, rappresenta una denuncia della sua ingiusta condanna e un tentativo di riabilitare la sua figura. Questo personaggio appare quindi come simbolo di un traditore tradito, un uomo che mescola brutalità e sensibilità in un intreccio di emozioni contrastanti.
Un'interpretazione artistica iconica del conte Ugolino si trova nella scultura di Jean-Baptiste Carpeaux, esposta al Musée d'Orsay, che cattura con intensità il dramma e la complessità di questa figura storica e letteraria.
Analisi ed Interpretazioni
Un canto dal ritmo incalzante
Il canto è nettamente suddiviso in due sezioni principali: l'arrivo nel punto più profondo dell'Inferno, dove si trova Lucifero (vv. 1-67), e il difficile viaggio per uscire dall'Inferno attraverso il passaggio nel centro della Terra (vv. 68-139).
La Giudecca
La Giudecca, ultima zona del IX cerchio, viene descritta in modo sintetico e preciso, quasi esclusivamente informativo, rischiando di sacrificare la componente evocativa. Non sono nominate anime specifiche, un'eccezione rispetto ad altre zone dell'Inferno, dove persino tra gli ignavi si intravedeva una misteriosa figura nota.
I traditori dei benefattori
I dannati in questa zona sono coloro che hanno tradito i propri benefattori, rappresentati principalmente da Giuda, Bruto e Cassio. Giuda, traditore di Cristo, è simbolo del tradimento alla Chiesa, mentre Bruto e Cassio, avversari di Cesare, rappresentano il tradimento dell'Impero. Dante considera Chiesa e Impero come pilastri dell'ordine spirituale e politico, riflessi terreni dell'unica luce divina.
Lucifero, parodia della Trinità
Lucifero, descritto con una mole immensa che supera i mille metri, si presenta come una parodia della Trinità divina: possiede tre volti, ciascuno rappresentante un aspetto del male – impotenza, ignoranza e malvagità.
La scalata del corpo di Lucifero
In un rapido sviluppo degli eventi, Dante e Virgilio affrontano un'impresa quasi alpinistica, scalando il corpo gigantesco di Lucifero. Durante questo percorso, c'è spazio anche per una spiegazione dottrinale sull'origine dell'Inferno: la caduta di Lucifero e lo spostamento della Terra che ne conseguì. Dopo la scalata, i due protagonisti attraversano la "natural burella" e, infine, riescono a rivedere le stelle.
Un paesaggio gelido e desolante
Dante si ritrova in un paesaggio glaciale, dove le anime sono imprigionate nel ghiaccio e il vento gelido soffia incessante. Di fronte a questo scenario, Dante si rifugia istintivamente dietro Virgilio, affidandosi alla guida illuminante del maestro. La descrizione del male assoluto si concentra su un "ineffabile negativo", una condizione tra la vita e la morte, che Dante invita il lettore a comprendere intuitivamente.
Lucifero: macchina del male
Lucifero è descritto come una gigantesca macchina del male: immobile, priva di vita e memoria, immersa in un'ambientazione desolante scandita dal vento e dal sibilo delle sue ali. Il Cocito, completamente ghiacciato, evoca un campo di battaglia in cui giacciono le vittime di cuori gelidi e traditori, incapaci di sentimenti umani.
Il processo spirituale di Dante
Secondo John Freccero, il passaggio attraverso il corpo di Lucifero rappresenta un momento spirituale cruciale: alla discesa segue la risalita, simboleggiando morte e resurrezione in una dinamica che richiama il processo pasquale del Cristianesimo. Voltando le spalle a Lucifero, Dante riconosce l'origine del male e si prepara ad affrontare il Purgatorio, dove potrà scegliere consapevolmente il bene.
Attraversando il centro dell'universo, Dante e Virgilio ribaltano la prospettiva: il mondo rovesciato dell'Inferno lascia spazio a una visione in cui Lucifero è capovolto, come visto dalla prospettiva divina. Questa trasformazione segna il passaggio verso la redenzione.
Passi Controversi
Il verso iniziale richiama l'incipit dell'Inno alla Croce di Venanzio Fortunato, poeta cristiano del VI secolo e vescovo di Poitiers. Questo inno fu composto per celebrare l'arrivo da Costantinopoli della reliquia del legno della Croce, dono alla regina santa Radegonda. I versi originali recitano: Vexilla regis prodeunt, / fulget Crucis mysterium, / quo carne carnis conditor / suspensus est patibulo ("Avanzano i vessilli del sovrano, splende il mistero della Croce, il patibolo su cui fu inchiodato il Creatore fatto carne"). Questa preghiera era particolarmente utilizzata nei riti del Venerdì Santo.
Nei versi 44-45, Dante descrive la faccia sinistra di Lucifero come nera, paragonandola al colore della pelle degli etiopi, riferendosi alla regione in cui il Nilo scorre verso la pianura egiziana. Al verso 49, il termine "vispistrello" deriva dal latino vespertilio, connesso a vesper ("sera"), poiché il pipistrello è un animale attivo di notte.
La "maciulla" (v. 56) corrisponde alla gramola, uno strumento di legno usato per triturare gli steli di canapa. Cassio viene descritto come "sì membruto" (v. 67), ma non è chiaro a quale fonte Dante si rifaccia. È possibile che il poeta confonda Cassio Longino, uno degli assassini di Cesare, con Lucio Cassio, associato a Catilina; in effetti, Cicerone, nella terza Catilinaria, descrive L. Cassi adipes, un'immagine però piuttosto distante da quella dantesca.
Il verso 87 suggerisce che Virgilio, dopo aver aiutato Dante a superare il margine roccioso, lo raggiunga con un balzo. Al verso 96, l'espressione "e già il sole a mezza terza riede" indica che sono circa le 7:30 del mattino: la "terza" si riferisce alla fascia oraria compresa tra le 6 e le 9 del mattino. Nello stesso momento, nell'emisfero boreale sta iniziando la notte, mentre in quello australe si avvicina l'alba.
L'espressione "camminata di palagio" (v. 97) evoca un passaggio ampio e comodo, simile a un corridoio di un palazzo, mentre la "natural burella" (v. 98) è descritta come una galleria naturale scavata nella roccia, una sorta di tunnel sotterraneo. Ai versi 110-111, "il punto / al qual si traggon d'ogne parte i pesi" si riferisce al centro della Terra, ritenuto secondo la fisica aristotelica il luogo verso cui i corpi gravitano.
La "gran secca" del verso 113 rappresenta per Dante l'emisfero boreale, dove si trovano le terre emerse, mentre "il colmo sotto il quale consunto / fu l'uomo che nacque e visse sanza pecca" allude alla parte più alta dell'emisfero boreale celeste, che sovrasta Gerusalemme, luogo della crocifissione di Gesù.
Infine, "la tomba" citata nel verso 128 è probabilmente identificabile con la natural burella, che si estende dal centro della Terra alla spiaggia del Purgatorio, e non con l'Inferno, come alcuni interpretano. Il canto termina con il celebre verso "E quindi uscimmo a riveder le stelle" (v. 139), che utilizza la parola "stelle", la stessa che chiude anche i Canti XXXIII del Purgatorio ("puro e disposto a salire a le stelle") e del Paradiso ("l'amor che move il sole e l'altre stelle").
Fonti: libri scolastici superiori