Parafrasi e Analisi: "Canto XXXII" - Inferno - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto XXXII dell'Inferno segna l'ingresso nella nona bolgia dell'ottavo cerchio, il luogo più profondo e oscuro dell'Inferno, destinato ai traditori. Qui Dante esplora una delle colpe più gravi secondo la sua concezione morale: il tradimento, inteso come la perversione del legame di fiducia e affetto tra gli esseri umani. L'atmosfera del canto è gelida e opprimente, non solo per l'ambiente fisico in cui i dannati sono collocati, ma anche per il peso simbolico della loro colpa.

La struttura del canto e il linguaggio utilizzato da Dante trasmettono una sensazione di rigidità e desolazione, introducendo una delle sezioni più crude e intense dell'intero poema. L'argomento si carica di un forte valore etico e universale, facendo emergere la condanna della rottura di ogni vincolo sacro, che sia di sangue, di patria o di ospitalità. Con toni severi e una narrazione carica di tensione, Dante prepara il lettore all'analisi della disumanità dei traditori, che culminerà nel centro stesso dell'Inferno.


Testo e Parafrasi


S'ïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,

io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch'io non l'abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;

ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.

Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch'aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.

Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!

Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
e io mirava ancora a l'alto muro,

dicere udi'mi: «Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de' fratei miseri lassi».

Per ch'io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d'acqua sembiante.

Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaï là sotto 'l freddo cielo,

com'era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l'orlo fatto cricchi.

E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l'acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,

livide, insin là dove appar vergogna
eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.

Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.

Quand'io m'ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a' piedi, e vidi due sì stretti,
che 'l pel del capo avieno insieme misto.

«Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
diss'io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
e poi ch'ebber li visi a me eretti,

li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.

Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond'ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.

E un ch'avea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?

Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.

D'un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d'esser fitta in gelatina:

non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra
con esso un colpo per la man d'Artù;
non Focaccia; non questi che m'ingombra

col capo sì, ch'i' non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se', ben sai omai chi fu.

E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni».

Poscia vid'io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de' gelati guazzi.

E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l'etterno rezzo;

se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi 'l piè nel viso ad una.

Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?».

E io: «Maestro mio, or qui m'aspetta,
si ch'io esca d'un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».

Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
«Qual se' tu che così rampogni altrui?».

«Or tu chi se' che vai per l'Antenora,
percotendo», rispuose, «altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?».

«Vivo son io, e caro esser ti puote»,
fu mia risposta, «se dimandi fama,
ch'io metta il nome tuo tra l'altre note».

Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!».

Allor lo presi per la cuticagna,
e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna».

Ond'elli a me: «Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch'io sia, né mosterrolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi».

Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratto glien'avea più d'una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,

quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?».

«Omai», diss'io, «non vo' che più favelle,
malvagio traditor; ch'a la tua onta
io porterò di te vere novelle».

«Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch'ebbe or così la lingua pronta.

El piange qui l'argento de' Franceschi:
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi".

Se fossi domandato "Altri chi v'era?",
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera.

Gianni de' Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
ch'aprì Faenza quando si dormia».

Noi eravam partiti già da ello,
ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l'un capo a l'altro era cappello;

e come 'l pan per fame si manduca,
così 'l sovran li denti a l'altro pose
là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:

non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l'altre cose.

«O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi 'l perché», diss'io, «per tal convegno,

che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,

se quella con ch'io parlo non si secca».
Se io possedessi uno stile (rime) stridente e dissonante
(chiocce), adeguato (come si converrebbe) al nono cerchio (tristo buco)
sopra il quale grava (pontan) l'intero Inferno (tutte l'altre rocce),

potrei esprimere (premerei) pienamente la sostanza (suco) della
mia visione (concetto); ma dal momento che non lo possiedo
(l'abbo), non senza timore (tema) mi accingo (mi conduco) a dire (dicer);

poiché descrivere il fondo di tutto l'universo non è impresa
da prendere alla leggera (a gabbo), né da linguaggio infantile
(da lingua che chiami mamma o babbo).

Sostengano (aiutino) dunque la mia poesia (verso) le Muse (quelle donne)
che aiutarono Anfione a costruire le mura di Tebe (a chiuder Tebe), in modo
che le mie parole (dir) corrispondano (non sia diverso) alla materia trattata (fatto).

Oh peccatori (plebe) scellerati (mal creata) più di tutti gli altri
(sovra tutte), che state nel luogo di cui è così difficile (duro)
parlare, meglio sarebbe per voi essere stati in terra (qui) pecore o capre (zebe)!

Appena fummo giù nello scuro pozzo, molto più in basso dei
piedi del gigante, mentre io stavo ancora guardando (mirava)
l'alta parete (muro),

sentii rivolgermi queste parole: «Attento (Guarda) a come cammini
(passi): cammina (va) in modo (sì) da non calpestare (calchi)
con i piedi (piante) le teste dei dannati (fratei miseri lassi)».

Per cui mi voltai e vidi davanti a me e sotto i piedi un lago
che, a causa del gelo, sembrava (avea... sembiante) vetro e non
acqua.

Il Danubio (Danoia) in Austria (Osterlicchi), durante l'inverno (verno) non
fece nel suo corso una crosta ghiacciata (grosso velo) così spessa, né il Don
(Tanaï) nelle fredde regioni settentrionali (là sotto 'l freddo cielo),

come laggiù (quivi); tanto che, se vi fosse caduto sopra il monte Tambernicchio
o il monte Pietrapana, non avrebbe (avria) scricchiolato (fatto cricchi)
neppure sul bordo della suasuperficie (pur da l'orlo).

E come la rana se ne sta col muso fuori dell'acqua a
gracidare, quando la contadina (villana) spera (sogna)
in una abbondante spigolatura (spigolar sovente),

così le anime dei dannati (ombre dolenti) stavano illividite nel
ghiaccio fino al pube (là dove appar vergogna), facendo (mettendo)
con i denti lo stesso rumore (in nota) che fa la cicogna col becco.

Ciascuna teneva il viso rivolto in basso; tra loro il freddo è
testimoniato (testimonianza si procaccia) dalla bocca e il dolore
(il cor tristo) dagli occhi.

Dopo essermi guardato un po' intorno, concentrai l'attenzione
(volsimi) verso il basso (a' piedi) e vidi due dannati così vicini
(stretti) che avevano (avieno) confusi insieme (misto) i capelli (pel del capo).

«Voi, che congiungete così strettamente (sì strignete) i petti»,
dissi, «ditemi, chi siete?». Ed essi piegarono il collo; e dopo
aver rivolto (eretti) il viso verso di me,

i loro occhi, che prima erano pieni di pianto (molli) solo all'interno (pur
dentro), gocciolarono (gocciar) fino alle labbra, e il gelo congelò (strinse)
le lacrime sulle palpebre (tra essi) e glieli chiuse saldamente (riserrolli).

Una spranga di ferro non unì (cinse) mai così saldamente un pezzo di
legno con un altro (con legno legno); per cui essi, tanto erano
vinti dall'ira, cozzarono tra loro come due montoni (becchi).

E uno che aveva perduto entrambi gli orecchi a causa del
freddo, continuando (pur) a tenere il viso in giù disse: «Perché
ci guardi (specchi) tanto intensamente?

Se vuoi sapere chi sono quei due, a loro
padre e a loro appartenne la valle dove
discende (si dichina) il fiume Bisenzio.

Sono fratelli (D'un corpo usciro); e potrai cercare in tutta la
Caina senza trovare un'anima (ombra) più degna di essere
confitta (fitta) nel ghiaccio (gelatina);

non colui (Mordret) a cui fu trapassato (rotto) il petto, e allo
stesso tempo (con esso) l'ombra, con un colpo (della lancia) per
mano di re Artù; non Focaccia; non costui che mi ostacola (m'ingombra)

con la testa, così da impedirmi di vedere (non veggio) davanti
(oltre più), e fu chiamato Sassolo Mascheroni; se sei toscano, sai
certo (ben sai omai) chi egli fu.

E affinché tu non mi costringa (mi metti) ancora a parlare (in
più sermoni), sappi che io fui Camicione dei Pazzi; e aspetto
Carlino, che faccia sembrare meno grave la mia colpa (mi scagioni)».

Poi vidi moltissimi (mille) volti resi (fatti) lividi (cagnazzi) dal
freddo; per cui sono preso (mi vien), e sempre lo sarò,
da orrore (riprezzo) per le acque gelate.

E mentre andavamo verso il centro del cerchio (mezzo) sul
quale gravano (si rauna) tutti i pesi (ogne gravezza), e mentre
tremavo nell'eterno gelo infernale (rezzo),

non so se per mia volontà (voler) o per volere divino (destino)
o per caso (fortuna), camminando tra le teste (dei dannati),
diedi un forte calcio (forte percossi 'l piè) in viso a una di esse.

Piangendo mi rimproverò: «Perché mi calpesti? se non sei
venuto per accrescere (crescer) la pena per il tradimento (vendetta)
di Montaperti, perché mi tormenti (moleste)?».

Ed io: «Maestro, aspettami qui, in modo che io possa
togliermi un dubbio (ch'io esca d'un dubbio) riguardo a (per) costui;
poi mi farai tutta (quantunque) la fretta che vorrai».

La guida rimase ferma (stette) ed io dissi a quello che ancora
imprecava duramente: «Chi sei tu che rimproveri me (altrui)
in tal modo?».

«Chi sei tu, piuttosto (Or), che vai per l'Antenora dando calci
(percotendo) al mio volto (gote)», rispose, «tanto che, se tu fossi
vivo, sarebbe (fora) un colpo insopportabile (troppo)?».

«Io sono vivo, e ti può (puote) essere gradito», risposi, «che io
ponga il tuo nome nella mia memoria (note), se
desideri essere ricordato (se dimandi fama)».

Ed egli: «Ho forte desiderio (brama) del contrario. Togliti di qui (quinci)
e non mi dare più fastidio (lagna), perché le tue lusinghe non hanno valore
(mal sai lusingar) in questo abisso infernale (lama)!».

Allora lo afferrai per la collottola (cuticagna) e dissi: «Bisogna
(El converrà) che tu dica il tuo nome, altrimenti ti strapperò
tutti i capelli (o che capel qui sù non ti rimagna)».

Ed egli: «Per quanto (Perché) tu mi strappi i capelli (mi dischiomi),
non ti dirò mai chi sono, e non te lo rivelerò (mosterrolti)
neppure se mi percuoti sul capo (mi tomi) mille volte (fiate)».

Avevo avvolto i capelli nella mano e gliene avevo già strappato
qualche ciocca, mentre egli sbraitava (latrando lui) con gli
occhi rivolti in basso (in giù raccolti),

quando un altro gridò: «Che cos'hai, Bocca? non ti basta far
rumore (sonar) con le mandibole senza dover anche urlare
(latrar)? che diavolo ti prende?».

«Ormai», dissi, «non voglio (vo') più che parli (favelle),
malvagio traditore; poiché io recherò precise notizie (vere
novelle) di te, a tua infamia (onta)».

«Va via», rispose, «e racconta (conta) quello che vuoi; ma se
uscirai (eschi) di qua, non tacere di quello che è stato adesso
così lesto a parlare.

Egli subisce il tormento in questa zona (qui) per il denaro
(l'argento) avuto dai Francesi: "Io vidi", potrai dire, "Buoso da
Duera nel ghiaccio di Cocito (là dove i peccatori stanno freschi)".

Se qualcuno ti domandasse "Chi vi era ancora?", (sappi) che
hai a fianco (dallato) Tesauro dei Beccheria, a cui Firenze
tagliò (segò) il collo (gorgiera).

Più in là vi sono (credo che sia) Gianni dei Soldanieri, Gano
(Ganellone) e Tebaldello, che di notte (quando si dormia) aprì le
porte di Faenza».

Ci eravamo già allontanati (partiti) da quello, quando vidi due
spiriti congelati in una stessa (una) buca, in modo che il capo
dell'uno sovrastava (era cappello) quello dell'altro;

con la stessa bramosia con cui si mangia (si manduca) il pane quando si
ha fame, così quello di sopra ('l sovran) addentava (li denti... pose) quello
di sotto nel punto in cui (là 've) il cervello si unisce (s'aggiugne) col midollo spinale (nuca):

Tideo, per odio (disdegno), addentò (si rose) la testa (tempie) di
Menalippo non diversamente (non altrimenti... che) da come
faceva quello col cranio (teschio) e le carni (l'altre cose).

«Tu che, in modo così bestiale (per sì bestial segno), sfoghi il tuo
odio (mostri... odio) su colui che stai divorando, dimmene il
motivo ('l perché)», dissi io, «con questo patto (convegno),

che se tu ti lamenti (piangi) di lui giustamente (a ragion),
sapendo (sappiendo) chi siete e la sua colpa (pecca), io possa
ancora contraccambiarti (cangi) sulla terra (nel mondo suso),

se non mi si dissecca la lingua (quella con ch'io parlo)».



Riassunto


vv. 1-15 - L'Invocazione alle Muse
Arrivato al fondo dell'Inferno, nell'ultimo cerchio della voragine, Dante esprime il timore di non riuscire a descrivere adeguatamente ciò che vede. Per questo, invoca il sostegno delle Muse affinché lo assistano nel compito.

vv. 16-39 - La Prima Zona: Caina
Nel punto più basso del nono cerchio, Dante e Virgilio si trovano di fronte a un'enorme distesa di ghiaccio, il lago di Cocito. Qui sono imprigionati, conficcati nel ghiaccio fino al busto con il volto rivolto verso il basso, i traditori dei propri familiari. Questa sezione è nota come Caina, dal nome di Caino, che assassinò il fratello Abele.

vv. 40-69 - I Conti Di Mangona
Due anime dannate, vicine l'una all'altra, sollevano il volto verso Dante, ma le loro lacrime, congelandosi, sigillano i loro occhi, causando ulteriore sofferenza. Presi dalla disperazione e dalla rabbia, i due iniziano a cozzare l'uno contro l'altro come caproni. Un'altra anima, identificatasi come Camicione de' Pazzi, spiega che si tratta dei fratelli Alessandro e Napoleone degli Alberti, conti di Mangona, che si uccisero a vicenda.

vv. 70-111 - La Seconda Zona: Antenora e l'incontro con Bocca degli Abati
Nella seconda area del nono cerchio, chiamata Antenora* in riferimento al leggendario traditore troiano Antenore, si trovano i traditori della patria. Questi sono conficcati nel ghiaccio fino a metà del volto. Qui Dante incontra Bocca degli Abati, colpevole del tradimento che portò alla sconfitta dei Guelfi nella battaglia di Montaperti del 1260. Bocca si rifiuta di rivelare il proprio nome, ma un'altra anima lo smaschera.

vv. 112-123 - La Denuncia di Bocca
Smascherato, Bocca rivela a sua volta l'identità di chi lo ha tradito, Buoso di Duera, e indica altri traditori presenti nella stessa zona.

vv. 124-139 - Ugolino e Ruggieri
Proseguendo, Dante si imbatte in due anime racchiuse nella stessa cavità. Una di esse morde furiosamente il cranio dell'altra, un'immagine di feroce e eterna punizione.


Figure Retoriche


v. 1: "Le rime": Sineddoche. La parte per il tutto, "le rime" anziché uno "stile poetico".
v. 1: "Aspre e chiocce": Endiadi.
v. 13: "Oh sovra tutte mal creata plebe": Apostrofe.
vv. 25-28: "Non fece al corso suo sì grosso velo di verno la Danòia in Osterlicchi, né Tanai là sotto 'l freddo cielo, com'era quivi": Similitudine.
vv. 31-35: "E come a gracidar si sta la rana col muso fuor de l'acqua, quando sogna di spigolar sovente la villana; livide, insin là dove appar vergogna eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia": Similitudine.
v. 36: "Mettendo i denti in nota di cicogna": Similitudine.
vv. 49-51: "Con legno legno spranga mai non cinse forte così; ond'ei come due becchi cozzaro insieme, tanta ira li vinse": Similitudine.
v. 86: "Che bestemmiava duramente ancora": Anastrofe.
v. 91: "Vivo son io": Anastrofe.
v. 91: "E caro esser ti puote": Anastrofe.
v. 118: "Altri chi v'era?": Anastrofe.
vv. 127-129: "E come 'l pan per fame si manduca, così 'l sovran li denti a l'altro pose là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca": Similitudine.
vv. 129-132: "Non altrimenti Tideo si rose le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e l'altre cose": Similitudine.
v. 139: "Se quella con ch'io parlo non si secca": Metafora.


Analisi ed Interpretazioni


Il Canto XXXII della Divina Commedia rappresenta l'inizio della narrazione dedicata ai traditori, collocati nel nono cerchio dell'Inferno. Qui i peccatori più gravi sono puniti nel ghiaccio di Cocito, suddiviso in quattro zone concentriche che culminano al centro della Terra, dove si trova Lucifero. L'apertura del Canto è segnata da una dichiarazione di poetica in cui Dante auspica di avere un linguaggio sufficientemente aspro per descrivere l'orrore del fondo dell'Universo. Egli richiama l'ispirazione delle Muse, sottolineando la necessità di uno stile adeguato alla durezza della materia, in un piccolo proemio che anticipa l'ingresso nella parte più terribile dell'Inferno.

Lo stile e il linguaggio
Dante utilizza uno stile caratterizzato da rime dure e sgradevoli, che riflettono l'atrocità del luogo e delle anime che lo popolano. Le rime aspre, come -accia, -ezzo, -occa, e una prevalenza di consonanti dure (c, z, t), creano un ritmo crudo e spigoloso. La durezza stilistica si accompagna alla violenza narrativa: i traditori, già responsabili di gravi delitti in vita, sono immersi in un clima di odio e disprezzo reciproco, senza alcuna traccia di solidarietà. Persino Dante, in questo contesto, agisce con violenza: calpesta, minaccia e maledice alcuni dei dannati, diventando strumento di una punizione divina che accentua la sofferenza già estrema.

Il Cocito e i suoi abitanti
Il Cocito è un luogo dominato da tensioni e odio implacabile. I peccatori, congelati nel ghiaccio, conservano la stessa meschina indole che li ha condotti alla dannazione: si tradiscono a vicenda persino nell'oltretomba, denunciando i compagni di pena per infangarne ulteriormente il nome. La pena, probabilmente ispirata al gelo metaforico che aveva rinserrato i loro cuori, contrasta con il calore della carità divina da cui essi si sono allontanati in vita. Tra i dannati spiccano figure come Camicione de' Pazzi, che denuncia il tradimento del congiunto Carlino, e Bocca degli Abati, il quale si scontra con Dante in una scena carica di rabbia e tensione.

La scena con Bocca degli Abati
L'episodio di Bocca degli Abati occupa una posizione centrale nel Canto. Traditore nella battaglia di Montaperti, Bocca è identificato solo grazie a un compagno di pena che ne rivela il nome. Dante, spinto dall'ira, lo aggredisce fisicamente e verbalmente, costringendolo a confessare. Questo episodio riflette l'impatto profondo che le lotte tra Guelfi e Ghibellini hanno avuto sulla vita e sull'opera di Dante. La violenza e il disprezzo che emergono in questo confronto sono specchio del clima politico e morale che il poeta condanna.

La rappresentazione dei traditori
Il Canto XXXII si sofferma sulla descrizione dei traditori nei primi due settori del Cocito: la Caina, dedicata ai traditori dei propri congiunti, e l'Antenòra, che accoglie i traditori politici. I peccatori sono rappresentati in modo degradante e spesso paragonati ad animali. Dante utilizza immagini zoomorfe, associando i dannati a pecore, rane, cicogne e cani, per enfatizzare la loro bestialità. Questa regressione linguistica prepara l'ingresso nel momento culminante del Canto, dove appare la figura di Ugolino della Gherardesca, il quale rode il cranio dell'arcivescovo Ruggieri in un gesto di odio inestinguibile. Tale scena, ancora avvolta nel mistero in questo Canto, sarà approfondita nel successivo.

L'invocazione alle Muse e il tópos dell'ineffabilità
Il Canto si apre con un'invocazione alle Muse, che segnala l'importanza e la difficoltà della materia trattata. Dante sottolinea la sfida di rappresentare l'abiezione del nono cerchio con un linguaggio adeguato, mostrando al contempo la consapevolezza del proprio talento poetico. Il riferimento ad Anfione, mitico fondatore di Tebe, introduce una forte antitesi tra l'armonia classica e la distruzione morale rappresentata dai traditori. L'uso di questo tópos anticipa il pieno sviluppo dell'ineffabilità che si raggiungerà nella terza cantica, il Paradiso.

La degradazione umana
Il tema centrale del Canto è la degradazione umana, evidente sia nel contesto politico delle lotte tra fazioni, sia nella perdita di dignità dei dannati, ridotti a mostruose caricature di se stessi. Il loro isolamento e la mancanza di redenzione contrastano con la magnanimità di personaggi incontrati in altri cerchi, come Farinata degli Uberti. La narrazione di Dante mette in evidenza il disordine morale del suo tempo, con una condanna esplicita di quei traditori che hanno distrutto la fiducia, l'unità familiare e il tessuto politico della società medievale.


Passi Controversi


L'espressione pigliare a gabbo (v. 7) significa «prendere alla leggera», in quanto gabbo equivale letteralmente a «beffa». Nei versi 10-12, Dante chiede il sostegno delle Muse, che avevano ispirato il poeta Anfione. Quest'ultimo, secondo il mito, con la melodia della sua cetra fece muovere le pietre del monte Citerone per costruire le mura di Tebe (probabilmente un riferimento all'Ars poetica di Orazio, vv. 394 e seguenti).

Nei versi 19-21, un dannato avvisa di non urtare le teste dei suoi compagni che sporgono dal ghiaccio. L'espressione fratei miseir lassi è quindi da intendere come «coloro che in vita furono tuoi fratelli, esseri umani», escludendo l'ipotesi che a parlare sia uno dei conti di Mangona, riferendosi ai dannati stessi.

Il termine Osterlicchi (v. 26) è una variante derivata dal tedesco Oesterreich, ossia Austria; il Tanai (v. 27) si riferisce al fiume Don, mentre il Tambernicchi (v. 28) rimane di difficile identificazione: potrebbe corrispondere a una cima della Schiavonia (come la Fruska Gora o lo Javornik) oppure al Monte Tambura sulle Alpi Apuane, noto anche come Stamberlicche. Quest'ultima catena comprende pure la Pietrapana (v. 28), oggi Pania della Croce.

L'espressione del v. 36 (mettendo i denti in nota di cicogna) indica il battito dei denti dei dannati, paragonato al tipico rumore prodotto dalle cicogne. Nei vv. 46-48, i conti di Mangona alzano le teste verso Dante, facendo scorrere le loro lacrime sul viso. Queste, gelandosi, chiudono loro gli occhi; non si ritiene plausibile che le lacrime ghiacciate uniscano fisicamente i loro volti, come ipotizzato da alcuni.

I versi 61-62 evocano Mordred, il cavaliere traditore che Re Artù trafisse con una lancia al punto da squarciargli il petto, lasciando che il sole attraversasse il corpo, interrompendo persino la sua ombra. L'aggettivo cagnazzi (v. 70), che descrive il colorito paonazzo per il freddo, è una creazione originale di Dante e costituisce un hàpax legòmenon.

Nel v. 90 (sì che, se fossi vivo, troppo fora), si intende: «così che, se io fossi vivo, sarebbe eccessivo», ossia degno di una severa vendetta. L'ipotesi che Bocca si rivolga a Dante dicendo «se tu fossi vivo» risulta improbabile, poiché la replica del poeta (Vivo son io) non avrebbe senso in questo contesto.

Il termine lama (v. 96) indica una «zona bassa», ovvero il basso Inferno. L'espressione per tal convegno (v. 135) si traduce come «a queste condizioni». L'ultimo verso del Canto (se quella con ch'io parlo non si secca) può essere interpretato come un augurio: «possa la mia lingua non seccarsi», anche se alcuni lo leggono come «se non morirò anzitempo».

Fonti: libri scolastici superiori

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