Parafrasi e Analisi: "Canto XXV" - Inferno - Divina Commedia - Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto XXV dell'Inferno si colloca all'interno dell'VIII Cerchio, nella settima bolgia, dove sono puniti i ladri. In questo canto, Dante esplora con straordinaria immaginazione i temi della trasformazione e della degradazione, presentando uno dei momenti più visionari e crudi di tutta la Commedia. Attraverso una rappresentazione di supplizi unici e terrificanti, il poeta approfondisce il legame tra il peccato e la perdita dell'identità umana, riflettendo su come il furto – inteso sia come privazione materiale sia come negazione della dignità altrui – comporti una corruzione profonda dell'anima.
Il canto è caratterizzato da un linguaggio aspro e dinamico, che rispecchia la violenza delle scene descritte, e da un intreccio di simboli che rimandano alla metamorfosi e alla punizione divina. È un momento in cui Dante, con la guida di Virgilio, affronta il peccato con uno sguardo non solo morale ma anche artistico, spingendo la sua poetica verso confini mai esplorati.
Testo e Parafrasi
Al fine de le sue parole il ladro le mani alzò con amendue le fiche, gridando: «Togli, Dio, ch'a te le squadro!». Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch'una li s'avvolse allora al collo, come dicesse 'Non vo' che più diche'; e un'altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo sé stessa sì dinanzi, che non potea con esse dare un crollo. Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi d'incenerarti sì che più non duri, poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi? Per tutt'i cerchi de lo 'nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo, non quel che cadde a Tebe giù da' muri. El si fuggì che non parlò più verbo; e io vidi un centauro pien di rabbia venir chiamando: «Ov'è, ov'è l'acerbo?». Maremma non cred'io che tante n'abbia, quante bisce elli avea su per la groppa infin ove comincia nostra labbia. Sovra le spalle, dietro da la coppa, con l'ali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque s'intoppa. Lo mio maestro disse: «Questi è Caco, che sotto 'l sasso di monte Aventino, di sangue fece spesse volte laco. Non va co' suoi fratei per un cammino, per lo furto che frodolente fece del grande armento ch'elli ebbe a vicino; onde cessar le sue opere biece sotto la mazza d'Ercule, che forse gliene diè cento, e non sentì le diece». Mentre che sì parlava, ed el trascorse, e tre spiriti venner sotto noi, de' quai né io né 'l duca mio s'accorse, se non quando gridar: «Chi siete voi?»; per che nostra novella si ristette, e intendemmo pur ad essi poi. Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, che l'un nomar un altro convenette, dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»; per ch'io, acciò che 'l duca stesse attento, mi puosi 'l dito su dal mento al naso. Se tu se' or, lettore, a creder lento ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia, ché io che 'l vidi, a pena il mi consento. Com'io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei piè si lancia dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia. Co' piè di mezzo li avvinse la pancia e con li anterïor le braccia prese; poi li addentò e l'una e l'altra guancia; li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra 'mbedue, e dietro per le ren sù la ritese. Ellera abbarbicata mai non fue ad alber sì, come l'orribil fiera per l'altrui membra avviticchiò le sue. Poi s'appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, né l'un né l'altro già parea quel ch'era: come procede innanzi da l'ardore, per lo papiro suso, un color bruno che non è nero ancora e 'l bianco more. Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno gridava: «Omè, Agnel, come ti muti! Vedi che già non se' né due né uno». Già eran li due capi un divenuti, quando n'apparver due figure miste in una faccia, ov'eran due perduti. Fersi le braccia due di quattro liste; le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso divenner membra che non fuor mai viste. Ogne primaio aspetto ivi era casso: due e nessun l'imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo. Come 'l ramarro sotto la gran fersa dei dì canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa, sì pareva, venendo verso l'epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe; e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l'un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso. Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse; anzi, co' piè fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l'assalisse. Elli 'l serpente, e quei lui riguardava; l'un per la piaga e l'altro per la bocca fummavan forte, e 'l fummo si scontrava. Taccia Lucano omai là dov'e' tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch'or si scocca. Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio, ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo 'nvidio; ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò sì ch'amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte. Insieme si rispuosero a tai norme, che 'l serpente la coda in forca fesse, e 'l feruto ristrinse insieme l'orme. Le gambe con le cosce seco stesse s'appiccar sì, che 'n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse. Togliea la coda fessa la figura che si perdeva là, e la sua pelle si facea molle, e quella di là dura. Io vidi intrar le braccia per l'ascelle, e i due piè de la fiera, ch'eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle. Poscia li piè di rietro, insieme attorti, diventaron lo membro che l'uom cela, e 'l misero del suo n'avea due porti. Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela di color novo, e genera 'l pel suso per l'una parte e da l'altra il dipela, l'un si levò e l'altro cadde giuso, non torcendo però le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso. Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie, e di troppa matera ch'in là venne uscir li orecchi de le gote scempie; ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fé naso a la faccia e le labbra ingrossò quanto convenne. Quel che giacëa, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia; e la lingua, ch'avëa unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta. L'anima ch'era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, e l'altro dietro a lui parlando sputa. Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l'altro: «I' vo' che Buoso corra, com'ho fatt'io, carpon per questo calle». Così vid'io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novità se fior la penna abborra. E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l'animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi, ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato; l'altr'era quel che tu, Gaville, piagni. |
Quand'ebbe finito di parlare (Al fine de le sue parole) il ladro alzò le mani sconciamente atteggiate (con amendue le fiche), gridando: «Prendile (Togli), Dio, che proprio contro di te le rivolgo (squadro)!». Da quel momento in poi (Da indi in qua) le serpi mi furono (fuor) care (amiche), poiché una gli si avvinghiò (li s'avvolse) allora al collo, come se volesse dire (dicesse) 'Non voglio (vo') che tu dica (diche) altro (più)'; e un'altra alle braccia, e lo legò di nuovo (rilegollo), annodando (ribadendo) se stessa così strettamente (sì) sul ventre del ladro (dinanzi), che questi non poteva (potea) più fare (dare) alcun movimento (crollo) con esse (le braccia). Ah Pistoia, Pistoia, perché non decidi (stanzi) di ridurti in cenere (d'incenerarti) in modo da cessare di esistere (sì che più non duri), dal momento che nelle azioni malvagie ('n mal fare) superi (avanzi) i tuoi stessi fondatori (il seme tuo)? In tutti i cerchi bui dell'Inferno non vidi uno spirito (spirto) tanto superbo contro (in) Dio, neppure (non) Capaneo (quel), che cadde dalle mura di Tebe (colpito dal fulmine di Giove). Il dannato (El) si allontanò (si fuggì) in modo tale che non poté più parlare (che non parlò più verbo); ed io vidi un centauro rabbioso arrivare gridando: «Dov'è, dov'è l'empio (acerbo)?». Io non credo che la Maremma abbia tante bisce quante ne aveva quello sul dorso (groppa) fino a dove (infin ove) ha inizio (nel centauro) la parte umana (nostra labbia). Sopra le spalle, dietro la nuca (coppa), gli stava (li giacea) un drago (draco) con le ali aperte, che (e quello) inceneriva (affuoca) chiunque si imbattesse in lui (s'intoppa). Il mio maestro disse: «Questo è Caco, che, presso la grotta (sasso) del monte Aventino, fece spesso (spesse volte) strage di uomini (di sangue... laco). Non si trova nello stesso girone (Non va... per un cammino) con gli altri Centauri (fratei), a causa del furto che egli compì con l'inganno (frodolente) della ricca mandria (grande armento) che si era fermata presso monte Aventino (ch'elli ebbe a vicino); per cui (onde) le sue azioni scellerate (opere biece) ebbero termine (cessar) sotto i colpi della clava (mazza) di Ercole, che gliene diede cento ma probabilmente lui non arrivò a sentirne dieci». Mentre parlava così, Caco si allontanò (trascorse), e subito dopo giunsero sotto di noi tre spiriti, dei quali (de' quai) né io né Virgilio ci accorgemmo (s'accorse), se non quando gridarono: «Chi siete?»; per cui il nostro discorso (novella) si interruppe (ristette) e da quel momento (poi) prestammo attenzione (intendemmo) solo (pur) ad essi. Io non li riconoscevo (conoscea); ma avvenne (ei seguette), come può avvenire (suol seguitar) di solito per un caso qualsiasi, che uno dovette (convenette) chiamare per nome (nomar) un altro, dicendo: «Cianfa dove sarà (fia) rimasto (rimaso)?»; per cui io, affinché (acciò che) il maestro stesse a sentire (stesse attento), posi l'indice davanti alla bocca (dal mento al naso). Se ora tu, lettore, sei restio (lento) a credere a quello che dirò, non sarà cosa da meravigliare (maraviglia), dal momento che io stesso, che vi ho assistito (che 'l vidi), stento a crederci (a pena il mi consento). Mentre (Com'io) tenevo gli occhi (ciglia) rivolti (levate) su di loro, ecco (e) un rettile con sei zampe (piè) scagliarsi (si lancia) su uno dei dannati (dinanzi a l'uno) e aderire (s'appiglia) completamente (tutto) a lui. Con le zampe centrali gli si avvinghiò (li avvinse) al ventre e con quelle anteriori afferrò le braccia; poi gli addentò entrambe le guance; allungò (distese) infine le zampe posteriori (li diretani) sulle cosce, gli infilò (miseli) la coda in mezzo (alle gambe) e la tese di dietro lungo la sua schiena (per le ren sù). Edera (Ellera) non fu (fue) mai così tenacemente avvinghiata (abbarbicata) a un albero, come l'orribile creatura (fiera) avvolse (avviticchiò) le sue membra a quelle del dannato (per l'altrui). Poi si compenetrarono (s'appiccar), come se fossero stati di cera calda, e confusero (mischiar) il loro colore, e ormai (già) nessuno dei due sembrava quello di prima (quel ch'era): allo stesso modo in cui (come) lungo (suso) un pezzo di carta (papiro), prima che bruci, avanza (procede) un colore scuro (bruno) che non è ancora nero ma non è più bianco (e 'l bianco more). Gli altri due dannati lo guardavano inorriditi ('l riguardavano) e ciascuno gridava: «In quale orribile modo (Omè... come) ti stai trasformando (ti muti), Agnolo!» Vedi che ormai non sei (se') più due corpi (né due) e neppure uno solo (né uno)». Le due teste (capi) erano ormai diventate una sola (un), quando ci apparvero due sembianze (figure) confuse (miste) in un'unica faccia, in cui i due esseri erano annullati (perduti). Dai quattro arti (liste) si formarono (Fersi) due braccia; le cosce, insieme alle gambe, il ventre e il petto (casso), divennero un insieme di membra mai visto prima (che non fuor [=furono] mai viste). Era cancellato (casso) in quella mostruosità (ivi) ogni aspetto originario (primaio): la figura (l'imagine) così trasformata (perversa) appariva (parea) allo stesso tempo composta da due corpi e da nessuno (due e nessun); e ridotto così (tal) si allontanò (sen gio) lentamente (con lento passo). Come il ramarro sotto la sferza del sole (gran fersa) nei giorni di canicola (dì canicular), passando da una siepe all'altra (cangiando sepe), sembra un fulmine (folgore) quando (se) attraversa la via, altrettanto veloce (sì) appariva, dirigendosi (venendo) verso i ventri (l'epe) degli altri due dannati, un serpentello pronto ad attaccare (acceso), livido e nero come un grano di pepe; e trafisse a uno dei due quella parte del corpo (l'ombelico) da cui (onde) prendiamo (è preso) nutrimento (nostro alimento) durante la gestazione (prima); poi cadde giù (giuso) disteso davanti al dannato (innanzi lui). Il dannato trafitto lo guardò, ma non disse nulla; anzi, coi piedi immobilizzati (fermati), sbadigliava proprio (pur) come se lo avesse assalito il sonno o la febbre. Il dannato (Elli) guardava fisso (riguardava) il serpente e il serpente (quei) il dannato (lui); emettevano un denso fumo (fummavan forte), l'uno dalla ferita (per la piaga) e l'altro dalla bocca, e il fumo si incontrava fondendosi (si scontrava). A questo punto (omai) Lucano dovrà tacere (Taccia), anche nel passo del suo poema in cui narra (là dov'e' tocca) dell'infelice (misero) Sabello e di Nasidio, e stia attento (attenda) ad ascoltare ciò che mi appresto a descrivere (quel ch'or si scocca). E a questo punto (omai) dovrà tacere Ovidio di Cadmo e di Aretusa, dal momento che, se egli nei suoi versi fa trasformare (converte poetando) l'uno (quello) in serpente e l'altra (quella) in fonte, io però non ne provo invidia (non lo 'nvidio): perché egli non descrisse mai la trasformazione (trasmutò) reciproca di due nature, poste l'una di fronte all'altra (a fronte a fronte) in modo che entrambe (amendue) le loro essenze (forme) fossero pronte a scambiarsi il corpo (lor matera). (Le due nature) si corrisposero l'una all'altra (si rispuosero) secondo queste fasi: il serpente divise in due (fesse) la coda a guisa di forca (in forca), e il dannato ferito ('l feruto) unì (ristrinse) insieme i piedi (l'orme). Le gambe e le cosce si congiunsero (s'appiccar) le une alle altre (seco stesse) così saldamente (sì), che in breve ('n poco) la linea di giuntura non dava alcun segno (non facea segno alcun) di presenza (che si paresse). La coda divisa (fessa) assumeva (Togliea) la figura umana che andava scomparendo (si perdeva) nell'altro (là), e mentre la pelle del serpente diventava (si facea) molle, l'altra (e quella di là) diventava dura. Vidi le braccia rientrare (intrar) attraverso (per) le ascelle, e le due zampe del rettile (fiera), che erano corte, allungarsi tanto quanto le braccia dell'altro (quelle) si accorciavano. Poi le zampe posteriori (li piè di rietro), attorcigliandosi (attorti) insieme, formarono (diventaron) il membro virile (che l'uom cela), mentre il dannato (misero) dal proprio sesso ne vide sporgere (sporti) due (per formare i piedi). Mentre il fumo copriva (vela) l'uno e l'altro del nuovo colore (annerendo il nuovo serpente e schiarendo il nuovo uomo), e generava i peli nell'uno (suso per l'una parte) e li faceva sparire (il dipela) nell'altro, l'uno assumeva posizione eretta (si levò) e l'altro cadeva a terra (giuso), senza però distogliere l'uno dall'altro (non torcendo) gli sguardi maligni (le lucerne empie), sotto i quali ciascuno andava cambiando faccia (cambiava muso). Quello che stava eretto (dritto) ritrasse (trasse) il muso (il) verso (ver') le tempie e dall'eccessiva (troppa) materia che si era accumulata in quel punto (ch'in là venne) fuoriuscirono le orecchie dalle guance (gote), che ne erano prive (scempie); ciò che di quella materia sovrabbondante (di quel soverchio) non si era ritirato (non corse in dietro) ed era rimasto lì (si ritenne), formò (fé) il naso in mezzo alla faccia e si ingrossò del necessario (quanto convenne) per formare le labbra. Quello disteso a terra (che giacëa) allungò (innanzi caccia) il muso e ritirò le orecchie dentro (per) la testa come fa (face) la lumaca (lumaccia) con le corna; e la sua lingua, che prima era unita e pronta (presta) a parlare, cominciò a biforcarsi (si fende), mentre nell'altro la lingua biforcuta si riunì (si richiude); e intanto il fumo svanì (resta); Lo spirito che era diventato serpente (fiera) fuggì per la bolgia (valle) sibilando (suffolando), mentre l'altro dietro di lui si mise a parlare sputando. Quindi (Poscia) gli voltò le spalle appena formate (novelle) e disse all'altro dannato: «Voglio (vo') che Buoso corra strisciando (carpon), come ho fatto io finora, per questa bolgia (calle)». Così io ho visto trasformarsi e cambiare natura (mutare e trasmutare) i ladri nella settima bolgia (la settima zavorra); e qui la novità dell'argomento mi scusi se lo stile (la penna) è stato un po' (fior) confuso (abborra). E per quanto (avvegna che) i miei occhi fossero un po' (alquanto) confusi e il mio animo smarrito (smagato), i due ladri rimasti (quei) non poterono andarsene (fuggirsi) così di soppiatto (tanto chiusi) da impedirmi di riconoscere (ch'i' non scorgessi) distintamente (ben) Puccio Sciancato; dei tre dannati (compagni) che si erano avvicinati prima, era l'unico (sol) che non aveva subito metamorfosi (non era mutato); l'altro era colui di cui tu, Gaville, ancora ti lamenti (piagni). |
Riassunto
La bestemmia di Vanni Fucci e l'invettiva contro Pistoia (vv. 1-15)
Dopo aver annunciato la sua profezia, Vanni Fucci compie un gesto oltraggioso nei confronti di Dio, un'azione oscena che provoca una reazione immediata. Serpi si avvolgono intorno al suo collo e alle braccia, immobilizzandolo e impedendogli sia di muoversi che di parlare. Di fronte a questa scena, Dante si scaglia con durezza contro la città di Pistoia, esprimendo tutta la sua condanna.
L'arrivo del centauro Caco (vv. 16-33)
Mentre Vanni Fucci tenta di fuggire, un'entità terrificante lo insegue: si tratta di Caco, una figura mostruosa con un intreccio di serpenti intorno al collo e un drago che gli si erge sulle spalle. Caco è un centauro noto per aver rubato i buoi di Ercole, atto che lo condusse alla morte per mano dell'eroe mitologico.
I tre ladri fiorentini (vv. 34-45)
Dopo l'allontanarsi di Caco, Dante e Virgilio vengono avvicinati da tre anime dannate, ladri provenienti da Firenze. Uno di loro si rivolge ai compagni, chiedendo dove si trovi Cianfa, un quarto complice.
La prima metamorfosi (vv. 46-78)
Dante si rivolge direttamente ai lettori, anticipando la narrazione di un evento straordinario che si svolge davanti ai suoi occhi. Un serpente dotato di sei zampe (Cianfa Donati) si getta contro uno dei ladri (Agnolo Brunelleschi), e i due corpi si fondono in una sola creatura mostruosa, un'immagine potente e surreale che lascia sbigottiti.
La seconda metamorfosi (vv. 79-141)
Un secondo serpente, più piccolo (Francesco dei Cavalcanti), attacca un altro ladro, Buoso Donati. Dopo il morso, avviene una trasformazione incredibile: il serpente assume sembianze umane, mentre il ladro si trasforma in serpente. Questa descrizione di metamorfosi sfida apertamente lo stile dei grandi poeti latini, come Lucano e Ovidio, con immagini potenti e un linguaggio ricco di dettagli.
Puccio Sciancato (vv. 142-151)
Infine, l'unico ladro a non subire trasformazioni è Puccio Sciancato. Immobilizzato dalla paura, assiste terrorizzato alle incredibili metamorfosi dei suoi compagni, restando come unico testimone in questo scenario di tormento e caos.
Figure Retoriche
v. 4: "Fuor le serpi amiche": Anastrofe.
v. 10: "Ahi Pistoia, Pistoia": Apostrofe.
v. 13: "Cerchi de lo 'nferno scuri": Iperbato.
v. 14: "In Dio tanto superbo": Anastrofe.
v. 15: "Non quel che cadde a Tebe giù da' muri": Perifrasi. Per indicare Capaneo.
vv. 19-20: "Maremma non cred'io che tante n'abbia, quante bisce elli avea su per la groppa": Similitudine.
v. 23: "Con l'ali aperte li giacea un draco": Anastrofe.
v. 27: "Di sangue fece spesse volte laco": Anastrofe.
v. 51: "E tutto a lui s'appiglia": Anastrofe.
v. 53: "Le braccia prese": Anastrofe.
v. 55: "Li diretani a le cosce distese": Anastrofe.
vv. 58-60: "Ellera abbarbicata mai non fue ad alber sì, come l'orribil fiera per l'altrui membra avviticchiò le sue": Similitudine.
vv. 64-66: "Come procede innanzi da l'ardore, per lo papiro suso, un color bruno che non è nero ancora e 'l bianco more": Similitudine.
v. 77: "Due e nessun l'imagine perversa parea": Anastrofe.
vv. 79-83: "Come 'l ramarro sotto la gran fersa dei dì canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa, sì pareva, venendo verso l'epe de li altri due": Similitudine.
vv. 77-78: "L'imagine perversa / parea": Enjambement.
vv. 79-80: "La gran fersa / dei dì canicular": Enjambement.
v. 84: "Livido e nero come gran di pepe": Similitudine.
v. 85-86: "Quella parte onde prima è preso nostro alimento": Perifrasi. Per indicare l'ombelico.
v. 88: "Ma nulla disse": Anastrofe.
v. 89-90: "Sbadigliava pur come sonno o febbre l'assalisse": Similitudine.
v. 102: "A cambiar lor matera fosser pronte": Anastrofe.
v. 111: "Si facea molle, e quella di là dura": Antitesi.
v. 114: "Tanto allungar quanto accorciavan quelle": Antitesi.
v. 115: "Insieme attorti": Anastrofe.
v. 119: "Di color novo": Anastrofe.
v. 119-120: "E genera 'l pel suso per l'una parte e da l'altra il dipela": Antitesi.
v. 121: "L'un si levò e l'altro cadde giuso": Antitesi.
vv. 131-132: "E li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia": Similitudine.
vv. 144-145: "Li occhi miei confusi fossero alquanto": Anastrofe.
vv. 149-150: "Ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato": Iperbato.
Analisi ed Interpretazioni
Il Canto dedicato alla settima bolgia dell'ottavo cerchio si conclude con una straordinaria dimostrazione della creatività e dell'abilità poetica di Dante, il quale esplora il tema delle metamorfosi, confrontandosi e superando i modelli classici di Lucano e Ovidio. La descrizione delle pene riservate ai ladri mostra la potenza divina, capace di ridurre la condizione umana a una materia plasmabile a suo piacimento, mentre il poeta si lancia in un'orgogliosa competizione con gli antichi, offrendo una visione mai descritta prima nella letteratura.
Struttura e temi del Canto
Il canto si articola in tre momenti principali. Nella prima parte, Vanni Fucci, ladro di Pistoia, conclude la sua profezia con un gesto osceno e parole empie rivolte a Dio. Questo atto di sfida suprema è immediatamente punito: serpenti gli avvolgono bocca e braccia, dimostrando la giustizia divina che utilizza anche le creature più spregevoli come strumenti del suo volere. Dante interviene con un'invettiva contro Pistoia, accusandola di essere ancor più malvagia dei suoi leggendari fondatori, i superstiti di Catilina, e anticipa il tono aspro che riserverà ad altre città italiane, come Pisa e Genova.
L'attenzione si sposta poi su Caco, figura mitologica che Dante rielabora inserendolo tra i ladri. Qui, Caco appare come una creatura mostruosa: un centauro ornato di serpenti al collo e un drago sputafuoco sulle spalle. La sua presenza nella bolgia si collega al furto della mandria di Gerione, che Ercole aveva punito con la morte. Dante si discosta dalle fonti classiche per modellare Caco secondo le esigenze narrative e simboliche del suo poema, rendendolo una figura ibrida e terrificante.
Le ultime due sezioni del canto vedono protagonisti quattro ladri fiorentini (compreso Cianfa Donati, citato implicitamente), le cui metamorfosi serpentine costituiscono un momento di grande sperimentazione stilistica. In particolare, Agnello Brunelleschi viene fuso con un serpente a sei zampe, mentre Buoso e il Guercio subiscono una trasformazione reciproca: uno da uomo a serpente, l'altro da serpente a uomo. La doppia metamorfosi, descritta nei dettagli del processo e non solo nel risultato finale, rappresenta un unicum nella letteratura, superando i modelli classici che si erano limitati a narrare mutamenti individuali.
Dante e il suo vanto poetico
Dante è ben consapevole dell'innovazione introdotta nella Commedia e non nasconde il proprio orgoglio. Con un esplicito riferimento a Lucano e Ovidio, afferma di superare i maestri classici grazie alla novità del tema trattato e alla maestria espressiva. Il confronto con i poeti latini non è un semplice esercizio di stile, ma un'affermazione del carattere sacro del poema, concepito come opera ispirata divinamente. La Commedia non è solo una narrazione di metamorfosi fisiche, come quelle dei ladri o di altre anime dannate; è anche il racconto di una trasformazione interiore, che culminerà nel Paradiso con il "trasumanare" del poeta stesso, un concetto che supera i limiti della condizione umana per abbracciare la gloria divina.
Considerazioni etiche e politiche
Le pene inflitte ai ladri nella bolgia simboleggiano la degradazione estrema di chi, appropriandosi dellecose altrui, perde la propria umanità. Attraverso la descrizione delle metamorfosi, Dante sottolinea l'impotenza dei dannati, ridotti a meri oggetti della volontà divina. Il tema politico emerge nel riferimento a Firenze, città natale di Dante, e ai suoi abitanti, qui rappresentati come esempio di corruzione e decadenza morale. La severa condanna a Firenze, che aprirà il canto successivo, si inserisce in un contesto di forte critica ai vizi del tempo.
In sintesi, questo canto rappresenta uno dei momenti più intensi e complessi della Commedia, unendo riflessioni teologiche, critica politica e sperimentazione poetica in una sintesi perfetta di temi e linguaggi.
Passi Controversi
Il verso 2 fa riferimento al gesto osceno di Vanni Fucci, che alza le mani disponendo il pollice tra l'indice e il medio piegati, un chiaro atto di scherno. Le sue parole significano: «Tieni, Dio, poiché queste mani le rivolgo contro di te».
Il verso 12 richiama la leggendaria fondazione di Pistoia, che si narra essere stata edificata dai superstiti dell'esercito di Catilina.
Il "grande armento" menzionato al verso 30 si riferisce alla mandria di Gerione, che Ercole stava portando con sé dalla Spagna e che Caco tentò di rubare.
Per quanto riguarda il "papiro" citato nel verso 65, probabilmente si tratta di un foglio di carta, anche se qualcuno ha ipotizzato che possa indicare lo stoppino di una candela. Tuttavia, quest'ultima interpretazione risulta meno plausibile, dato che il lucignolo brucia dall'alto verso il basso, contrariamente a quanto descritto da Dante.
La fusione dei due esseri in un unico corpo (vv. 60-69) richiama il mito ovidiano di Salmace ed Ermafrodito, narrato nelle Metamorfosi (IV, 378 e seguenti), dove si legge: "non sono più due ma un'unica forma doppia, non più definibili né come femmina né come maschio, ma entrambi e nessuno al contempo". I versi 71-72 ricordano ancora Ovidio (Met., IV, 373-375), dove si descrive l'unione dei due corpi in un'unica figura.
Il verso 73 si riferisce probabilmente alla fusione delle braccia umane e delle zampe posteriori del serpente in due nuovi arti, anche se l'espressione è ambigua.
Il termine "casso" (vv. 74 e 76) è un esempio di rima equivoca: nel primo caso significa "petto", mentre nel secondo indica "cancellato".
Al verso 83, "acceso" potrebbe significare "infuriato", anche se alcuni lo interpretano come "che emette fuoco", un'ipotesi meno probabile.
Sabello e Nasidio, citati nel verso 95, sono due soldati dell'esercito di Catone che, attraversando il deserto libico, subiscono orribili trasformazioni dopo essere stati morsi da serpenti (secondo la narrazione della Farsaglia di Lucano, IX, 761-804). Sabello si riduce in cenere, mentre Nasidio si gonfia fino a scoppiare, trasformandosi in una massa informe.
Il verso 97 menziona Cadmo, il leggendario fondatore di Tebe che fu trasformato in serpente, e Aretusa, una ninfa che, inseguita dal dio Alfeo, venne mutata in fonte (entrambi i miti si trovano nelle Metamorfosi di Ovidio).
Le "orme" al verso 105 sono una metonimia: con il termine si indicano i piedi, rappresentando l'effetto per la causa.
Le "lucerne empie" (v. 122) rappresentano metaforicamente gli occhi carichi di malignità dei due dannati.
Infine, al verso 144, il verbo "abborrare" significa "mettere insieme in modo frettoloso o confuso", derivato da "borra" (imbottitura di lana). "Fior" è un termine delle Origini che significa "un po'".
Fonti: libri scolastici superiori