Parafrasi, Analisi e Commento di: "La ginestra" di Giacomo Leopardi
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi puntuale
4) Parafrasi discorsiva
5) Figure Retoriche
6) Analisi e Commento
7) Confronti
8) Domande e Risposte
Scheda dell'Opera
Autore: Giacomo Leopardi
Titolo dell'Opera: Canti
Prima edizione dell'opera: 1831, presso l'editore Piatti. Tuttavia La ginestra fu pubblicata postuma nell'edizione dei Canti del 1845
Genere: Poesia lirica
Introduzione
"La ginestra, o il fiore del deserto" è una delle ultime e più celebri poesie di Giacomo Leopardi, composta nel 1836, poco prima della morte del poeta. Questo componimento rappresenta una sintesi matura del pensiero leopardiano, in cui emergono temi come la fragilità umana, l'indifferenza della natura e la necessità di una solidarietà tra gli uomini di fronte alle avversità della vita. Ambientata sulle pendici del Vesuvio, la ginestra diventa simbolo di resistenza e dignità di fronte alla forza distruttiva della natura, rappresentata dal vulcano che minaccia continuamente la vita intorno a sé. Con il suo caratteristico tono amaro e riflessivo, Leopardi critica l'illusione del progresso umano e invita a riconoscere la nostra condizione di debolezza, promuovendo un'alleanza tra gli uomini contro le forze avverse della natura. "La ginestra" si distingue per il suo linguaggio ricco e vibrante, che riesce a trasmettere sia la bellezza del paesaggio sia la profondità delle riflessioni filosofiche del poeta.
Testo e Parafrasi puntuale
E gli uomini vollero / piuttosto che le tenebre la luce (Giovanni, III, 19) 1. Qui su l'arida schiena 2. del formidabil monte 3. sterminator Vesevo, 4. la qual null'altro allegra arbor né fiore, 5. tuoi cespi solitari intorno spargi, 6. odorata ginestra, 7. contenta dei deserti. Anco ti vidi 8. de' tuoi steli abbellir l'erme contrade 9. che cingon la cittade 10. la qual fu donna de' mortali un tempo, 11. e del perduto impero 12. par che col grave e taciturno aspetto 13. faccian fede e ricordo al passeggero. 14. Or ti riveggo in questo suol, di tristi 15. lochi e dal mondo abbandonati amante 16. e d'afflitte fortune ognor compagna. 17. Questi campi cosparsi 18. di ceneri infeconde, e ricoperti 19. dell'impietrata lava, 20. che sotto i passi al peregrin risona; 21. dove s'annida e si contorce al sole 22. la serpe, e dove al noto 23. cavernoso covil torna il coniglio; 24. fûr liete ville e cólti, 25. e biondeggiâr di spiche, e risonâro 26. di muggito d'armenti; 27. fûr giardini e palagi, 28. agli ozi de' potenti 29. gradito ospizio; e fûr cittá famose, 30. che coi torrenti suoi l'altèro monte 31. dall'ignea bocca fulminando oppresse 32. con gli abitanti insieme. Or tutto intorno 33. una ruina involve, 34. ove tu siedi, o fior gentile, e quasi 35. i danni altrui commiserando, al cielo 36. di dolcissimo odor mandi un profumo, 37. che il deserto consola. A queste piagge 38. venga colui che d'esaltar con lode 39. il nostro stato ha in uso, e vegga quanto 40. è il gener nostro in cura 41. all'amante natura. E la possanza 42. qui con giusta misura 43. anco estimar potrá dell'uman seme, 44. cui la dura nutrice, ov'ei men teme, 45. con lieve moto in un momento annulla 46. in parte, e può con moti 47. poco men lievi ancor subitamente 48. annichilare in tutto. 49. Dipinte in queste rive 50. son dell'umana gente 51. «Le magnifiche sorti e progressive». 52. Qui mira e qui ti specchia, 53. secol superbo e sciocco, 54. che il calle insino allora 55. dal risorto pensier segnato innanti 56. abbandonasti, e vòlti addietro i passi, 57. del ritornar ti vanti, 58. e procedere il chiami. 59. Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti, 60. di cui lor sorte rea padre ti fece, 61. vanno adulando, ancora 62. ch'a ludibrio talora 63. t'abbian fra sé. Non io 64. con tal vergogna scenderò sotterra; 65. ma il disprezzo piuttosto che si serra 66. di te nel petto mio, 67. mostrato avrò quanto si possa aperto; 68. bench'io sappia che obblio 69. preme chi troppo all'etá propria increbbe. 70. Di questo mal, che teco 71. mi fia comune, assai finor mi rido. 72. Libertá vai sognando, e servo a un tempo 73. vuoi di novo il pensiero, 74. sol per cui risorgemmo 75. della barbarie in parte, e per cui solo 76. si cresce in civiltá, che sola in meglio 77. guida i pubblici fati. 78. Cosí ti spiacque il vero 79. dell'aspra sorte e del depresso loco 80. che natura ci die'. Per queste il tergo 81. vigliaccamente rivolgesti al lume 82. che il fe' palese; e, fuggitivo, appelli 83. vil chi lui segue, e solo 84. magnanimo colui 85. che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, 86. fin sopra gli astri il mortal grado estolle. 87. Uom di povero stato e membra inferme 88. che sia dell'alma generoso ed alto, 89. non chiama sé né stima 90. ricco d'òr né gagliardo, 91. e di splendida vita o di valente 92. persona infra la gente 93. non fa risibil mostra; 94. ma sé di forza e di tesor mendíco 95. lascia parer senza vergogna, e noma 96. parlando, apertamente, e di sue cose 97. fa stima al vero uguale. 98. Magnanimo animale 99. non credo io giá, ma stolto, 100. quel che nato a perir, nutrito in pene, 101. dice: — A goder son fatto, — 102. e di fetido orgoglio 103. empie le carte, eccelsi fati e nòve 104. felicitá, quali il ciel tutto ignora, 105. non pur quest'orbe, promettendo in terra 106. a popoli che un'onda 107. di mar commosso, un fiato 108. d'aura maligna, un sotterraneo crollo 109. distrugge sí, ch'avanza 110. a gran pena di lor la rimembranza. 111. Nobil natura è quella 112. ch'a sollevar s'ardisce 113. gli occhi mortali incontra 114. al comun fato, e che con franca lingua, 115. nulla al ver detraendo, 116. confessa il mal che ci fu dato in sorte, 117. e il basso stato e frale; 118. quella che grande e forte 119. mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire 120. fraterne, ancor piú gravi 121. d'ogni altro danno, accresce 122. alle miserie sue, l'uomo incolpando 123. del suo dolor, ma dá la colpa a quella 124. che veramente è rea, che de' mortali 125. madre è di parto e di voler matrigna. 126. Costei chiama inimica; e incontro a questa 127. congiunta esser pensando, 128. siccom'è il vero, ed ordinata in pria 129. l'umana compagnia, 130. tutti fra sé confederati estima 131. gli uomini, e tutti abbraccia 132. con vero amor, porgendo 133. valida e pronta ed aspettando aita 134. negli alterni perigli e nelle angosce 135. della guerra comune. Ed alle offese 136. dell'uomo armar la destra, e laccio porre 137. al vicino ed inciampo, 138. stolto crede cosí, qual fôra in campo 139. cinto d'oste contraria, in sul piú vivo 140. incalzar degli assalti, 141. gl'inimici obbliando, acerbe gare 142. imprender con gli amici, 143. e sparger fuga e fulminar col brando 144. infra i propri guerrieri. 145. Cosí fatti pensieri 146. quando fien, come fûr, palesi al volgo; 147. e quell'orror che primo 148. contra l'empia natura 149. strinse i mortali in social catena, 150. fia ricondotto in parte 151. da verace saper; l'onesto e il retto 152. conversar cittadino, 153. e giustizia e pietade altra radice 154. avranno allor che non superbe fole, 155. ove fondata probitá del volgo 156. cosí star suole in piede 157. quale star può quel c'ha in error la sede. 158. Sovente in queste rive, 159. che, desolate, a bruno 160. veste il flutto indurato, e par che ondeggi, 161. seggo la notte; e su la mesta landa, 162. in purissimo azzurro 163. veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, 164. cui di lontan fa specchio 165. il mare, e tutto di scintille in giro 166. per lo vòto seren brillare il mondo. 167. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, 168. ch'a lor sembrano un punto, 169. e sono immense, in guisa 170. che un punto a petto a lor son terra e mare 171. veracemente; a cui 172. l'uomo non pur, ma questo 173. globo, ove l'uomo è nulla, 174. sconosciuto è del tutto; e quando miro 175. quegli ancor piú senz'alcun fin remoti 176. nodi quasi di stelle, 177. ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo 178. e non la terra sol, ma tutte in uno, 179. del numero infinite e della mole, 180. con l'aureo sole insiem, le nostre stelle 181. o sono ignote, o cosí paion come 182. essi alla terra, un punto 183. di luce nebulosa; al pensier mio 184. che sembri allora, o prole 185. dell'uomo? E rimembrando 186. il tuo stato quaggiú, di cui fa segno 187. il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte, 188. che te signora e fine 189. credi tu data al Tutto; e quante volte 190. favoleggiar ti piacque, in questo oscuro 191. granel di sabbia, il qual di terra ha nome, 192. per tua cagion, dell'universe cose 193. scender gli autori, e conversar sovente 194. co' tuoi piacevolmente; e che, i derisi 195. sogni rinnovellando, ai saggi insulta 196. fin la presente etá, che in conoscenza 197. ed in civil costume 198. sembra tutte avanzar; qual moto allora, 199. mortal prole infelice, o qual pensiero 200. verso te finalmente il cor m'assale? 201. Non so se il riso o la pietá prevale. 202. Come d'arbor cadendo un picciol pomo, 203. cui lá nel tardo autunno 204. maturitá senz'altra forza atterra, 205. d'un popol di formiche i dolci alberghi 206. cavati in molle gleba 207. con gran lavoro, e l'opre, 208. e le ricchezze ch'adunate a prova 209. con lungo affaticar l'assidua gente 210. avea provvidamente al tempo estivo, 211. schiaccia, diserta e copre 212. in un punto; cosí d'alto piombando, 213. dall'utero tonante 214. scagliata al ciel profondo, 215. di ceneri e di pomici e di sassi 216. notte e ruina, infusa 217. di bollenti ruscelli, 218. o pel montano fianco 219. furiosa tra l'erba 220. di liquefatti massi 221. e di metalli e d'infocata arena 222. scendendo immensa piena, 223. le cittadi che il mar lá su l'estremo 224. lido aspergea, confuse 225. e infranse e ricoperse 226. in pochi istanti: onde su quelle or pasce 227. la capra, e cittá nove 228. sorgon dall'altra banda, a cui sgabello 229. son le sepolte, e le prostrate mura 230. l'arduo monte al suo piè quasi calpesta. 231. Non ha natura al seme 232. dell'uom piú stima o cura 233. ch'alla formica: e se piú rara in quello 234. che nell'altra è la strage, 235. non avvien ciò d'altronde 236. fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde. 237. Ben mille ed ottocento 238. anni varcâr poi che sparîro, oppressi 239. dall'ignea forza, i popolati seggi, 240. e il villanello intento 241. ai vigneti, che a stento in questi campi 242. nutre la morta zolla e incenerita, 243. ancor leva lo sguardo 344. sospettoso alla vetta 245. fatal, che nulla mai fatta piú mite 246. ancor siede tremenda, ancor minaccia 247. a lui strage ed ai figli ed agli averi 248. lor poverelli. E spesso 249. il meschino in sul tetto 250. dell'ostel villereccio, alla vagante 251. aura giacendo tutta notte insonne, 252. e balzando piú volte, esplora il corso 253. del temuto bollor, che si riversa 254. dall'inesausto grembo 255. sull'arenoso dorso, a cui riluce 256. di Capri la marina 257. e di Napoli il porto e Mergellina. 258. E se appressar lo vede, o se nel cupo 259. del domestico pozzo ode mai l'acqua 260. fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, 261. desta la moglie in fretta, e via, con quanto 262. di lor cose rapir posson, fuggendo, 263. vede lontan l'usato 264. suo nido, e il picciol campo, 265. che gli fu dalla fame unico schermo, 266. preda al flutto rovente, 267. che crepitando giunge, e inesorato 268. durabilmente sovra quei si spiega. 269. Torna al celeste raggio 270. dopo l'antica obblivion, l'estinta 271. Pompei, come sepolto 272. scheletro, cui di terra 273. avarizia o pietá rende all'aperto; 274. e dal deserto fòro 275. diritto infra le file 276. de' mozzi colonnati il peregrino 277. lunge contempla il bipartito giogo 278. e la cresta fumante, 279. ch'alla sparsa ruina ancor minaccia. 280. E nell'orror della secreta notte 281. per li vacui teatri, 282. per li templi deformi e per le rotte 283. case, ove i parti il pipistrello asconde, 284. come sinistra face 285. che per vòti palagi atra s'aggiri, 286. corre il baglior della funerea lava, 287. che di lontan per l'ombre 288. rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. 289. Cosí, dell'uomo ignara e dell'etadi 290. ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno 291. dopo gli avi i nepoti, 292. sta natura ognor verde, anzi procede 293. per sí lungo cammino 294. che sembra star. Caggiono i regni intanto, 295. passan genti e linguaggi: ella nol vede: 296. e l'uom d'eternitá s'arroga il vanto. 297. E tu, lenta ginestra, 298. che di selve odorate 299. queste campagne dispogliate adorni, 300. anche tu presto alla crudel possanza 301. soccomberai del sotterraneo foco, 302. che ritornando al loco 303. giá noto, stenderá l'avaro lembo 304. su tue molli foreste. E piegherai 305. sotto il fascio mortal non renitente 306. il tuo capo innocente: 307. ma non piegato insino allora indarno 308. codardamente supplicando innanzi 309. al futuro oppressor; ma non eretto 310. con forsennato orgoglio inver' le stelle, 311. né sul deserto, dove 312. e la sede e i natali 313. non per voler ma per fortuna avesti; 314. ma piú saggia, ma tanto 315. meno inferma dell'uom, quanto le frali 316. tue stirpi non credesti 317. o dal fato o da te fatte immortali. |
E gli uomini vollero / piuttosto che le tenebre la luce (Giovanni, III, 19) 1. Qui sul crinale (schiena) desolato 2. Del monte spaventoso (formidabile) 3. E distruttore Vesuvio, 4. Il quale non è ornato dai colori di nessun altro arbusto o fiore, 5. Spargi intorno i tuoi cespi solitari, 6. Profumata ginestra, 7. Felice nelle terre desolate. Un'altra volta ("anco") ti vidi 8. Che abbellivi con i tuoi steli anche i terreni solitari 9. Che circondano Roma (la cittade), 10. La città regina (donna) degli esseri umani una volta, 11. E dell'Impero ormai da tempo caduto 12. E sembra (par che) che queste campagne con il loro silenzioso e cupo aspetto 13. Testimonino e ricordino a chi vi passa (passeggero) il passato di quei luoghi. 14. Ti rivedo adesso su questo terreno, tu che ami 15. i luoghi malinconici e isolati dal resto del mondo, 16. e accompagni sempre ciò che dalla grandezza è caduto in disgrazia ("afflitte fortune") 17. Questi campi sui cui sono distese 18. Ceneri che li rendono sterili, e coperti 19. Dalla lava dissecata e ormai divenuta roccia 20. Che rintocca sotto i passi di chi la calpesta ("peregrin"); 21. Dove si nasconde nella sua tana o si distende arrotolandosi al sole 22. Il serpente, e dove alla familiare 23. E profonda tana ("covil") torna il coniglio; 24. Furono coltivati questi campi e popolati di ricche città, ("liete ville") 25. E biondeggiarono di grano e messi, e risuonò l'aria 26. Dei muggiti delle mandrie, 27. Vi furono giardini e regge sontuose, 28. Per lo svago dei potenti 29. Luogo prediletto; e vi furono città celebri 30. Che con i suoi fiumi di lava il vulcano prepotente ("altero") 31. tuonando ("fulminando") dalla sua bocca infuocata seppellì 32. Insieme a tutti i loro abitanti. Ora tutto qui intorno 33. È avvolto in uno sfacelo, 34. Dove tu cresci, o fiore delicato, e come se 35. Stessi piangendo le disgrazie altrui, nell'aria 36. Spargi un odore finissimo e profumato, 37. Che raddolcisce il dolore del deserto. In questi luoghi 38. Venga chi ha l'abitudine ("ha in uso", v.39) di entusiasmarsi 39. Della nostra condizione di esseri umani, e guardi con i propri occhi quanto 40. È cara ("in cura") la nostra specie ("il gener nostro") 41. Alla benevola natura. E la potenza dell'uomo ("uman seme", v.43) 42. In questo posto con giusto metro di misura 43. Potrà valutare con esattezza, 44. A cui la natura, come una severa balia ("dura nutrice"), nel momento in cui egli ha meno paura di essere sorpreso, 45. Con un minimo moto nell'attimo appena di un secondo 46. È capace di radere al suolo ("annichilare", v.48) gran parte di ciò che egli crea e con moti 47. Ancora più leggeri in un baleno 48. Distruggere tutto ciò che ne rimane. 49. Qui su queste pendici ("rive") come in un quadro 50. è del genere umano 51. Ritratto il destino di splendore e progresso. 52. Vieni qui a guardarti in viso e specchiarti, 53. Secolo vano e superbo, 54. Che la via ("il calle") sino ad ora percorsa 55. Dal pensiero ritrovato del Rinascimento 56. Hai abbandonato, e sei tornato indietro, 57. E vantandoti del tuo cammino a ritroso, 58. Lo chiami avanzamento e progresso. 59. Il tuo infantilismo ("pargoleggiar") tutti gli intellettuali, 60. Ai quali sei padre viste le loro posizioni erronee ("sorte rea") 61. Adulano e lodano continuamente, anche se 62. A volte ti prendono in giro ("a ludibrio") 63. E ti scherniscono segretamente ("tra sé"). Non io, 64. Io non morirò ("scenderò sotterra") comportandomi in un modo tanto infamante; 65. Piuttosto il disprezzo profondo racchiuso 66. Nel mio cuore per te, 67. dimostrerò più apertamente che si possa: 68. nonostante io sappia bene che l'oblio 69. È la pena per chi fu troppo sgradito all'età in cui visse. 70. Di questa pena, che con te 71. Condivido, per il momento non mi preoccupo affatto e anzi mi pare ridicola. 72. Sogni di essere libero, e vuoi nello stesso momento che sia servo 73. Di nuovo il pensiero, 74. La sola cosa a cui si deve la nostra resurrezione 75. Parziale dalla barbarie passata, e la sola in virtù della quale 76. Cresce la cultura e la civiltà, unico oggetto che verso il meglio 77. indirizza il destino dei popoli ("pubblici fati"). 78. Così hai disprezzato la realtà 79. Del destino amaro e del luogo piccolo e meschino 80. Che la natura ci ha concesso. Per questo le spalle ("il tergo") 81. Hai volto da vigliacco alla luce della ragione ("il lume") 82. Che ci ha svelato il vero: e, fuggendo, chiami 83. Con il nome di vile chi la segue, e semplicemente 84. Magnanimo chi 85. Prendendosi gioco di se stesso o degli altri, furbo o forse pazzo, 86. Innalza ("estolle") sino alle stelle l'urlo disperato degli uomini. 87. Un uomo umile e malato ("povero stato e membra inferme") 88. Che sia tuttavia nell'animo generoso e nobile, 89. Non si ritiene né si definisce da solo 90. Ricco di tesori né forte, 91. E di vita sfarzosa o vigorosa 92. Costituzione del corpo tra le persone 93. Non si vanta in maniera ridicola; 94. Ma essendo come un mendicante che deve chiedere ad altri sostegno e denaro 95. Lascia che il suo stato si noti senza vergognarsi, e chiama, 96. Quando ne parla, apertamente le cose 97. Con il loro vero nome e le valuta con esattezza ("chiama e fa stima al vero uguale") 98. Un uomo dotato di sagacia ("magnanimo") 99. Io non considero infatti ("già"), ma piuttosto uno sciocco, 100. Chi, essendo nato per morire e nutrito unicamente di sofferenza, 101. Dice, sono fatto per godere, 102. E di orgoglio nauseante 103. Riempie libri, un futuro splendido e felicità 104. tutte nuove, che nemmeno l'universo intero conosce, 105. E tanto meno questo pianeta, promette sulla terra 106. A una massa di popoli che un'onda 107. di mare in tempesta o un semplice respiro 108. Di aria infetta da una pestilenza ("aura maligna") o un terremoto ("sotterraneo crollo") 109. Sono capaci di annientare a tal punto, che sopravviverebbe ("avanza") 110. A stento di loro il ricordo. 111. Una nobile natura è invece quella 112. Di chi osa sollevare 113. Gli occhi come semplice uomo contro 114. Il destino comune a tutti, e con lingua sincera e schietta, 115. Non togliendo nulla a ciò che è vero, 116. Confessa e parla apertamente del dolore che ci è stato assegnato per destino 117. E lo stato infimo e debole in cui viviamo; 118. È una natura nobile quella che tenace e solida 119. Si mostra nella sofferenza, né odio e rabbia 120. Verso i propri fratelli esseri umani, sentimenti più gravi 121. Di ogni altra disgrazia, aggiunge 122. alle sventure che già prova di per sé, non incolpando perciò 123. l'uomo come causa dei propri mali, ma accusando colei 124. che davvero è colpevole, la Natura, che degli esseri umani 125. è madre perché li ha generati ma matrigna per come si comporta con loro ("madre di parto e di voler matrigna"). 126. È lei che devi chiamare nemica; e contro di lei 127. Pensando se stessa come unita 128. E schierata all'unisono ("ordinata in pria"), com'è giusto e vero, 129. La società umana 130. Considera tutti tra loro alleati 131. Gli uomini e tutti li abbraccia insieme 132. Con sincero amore, porgendo 133. O aspettando sempre un aiuto veloce ed efficace 134. Tra le tantissime minacce e paure 135. Della guerra che tutti combattono insieme. E con le ingiurie verso i propri simili 136. Armare la mano degli uomini, o porre ostacoli ("laccio") 137. O intralciare chi ci sta vicino, 138. Reputa stupido, così come lo sarebbe ("fora") chi in un campo di battaglia, 139. Circondato dai nemici, nel pieno 140. Delle ondate incalzanti della parte avversa, 141. Dimenticando i nemici, cominciasse ad aprire dispute aspre 142. Con i propri compagni di battaglia, 143. Metterli in fuga e colpirli a morte ("fulminar") brandendo la propria spada 144. Tra i soldati della propria schiera. 145. Un ragionamento di questo tipo, 146. Quando sarà, come lo è stato in fondo già in passato, noto a chiunque 147. E quel sacro terrore che all'alba dei tempi ("orror primo") 148. Contro la Natura malvagia 149. Strinse tutti gli uomini come gli anelli di una catena, 150. Sarà riportato tra noi almeno in parte 151. Dalla conoscenza del Vero ("verace saper"), l'onestà e la rettitudine 152. Nei rapporti tra gli uomini ("conversar cittadino"), 153. La giustizia e la pietà, un altro fondamento più profondo ("radice") 154. Avranno delle farneticazioni illusorie e ottuse ("superbe fole"), 155. Sulle quali il coraggio dei popoli ("probità del volgo") 156. Potrebbe stare in piedi così come ci starebbe 157. Chi poggia i piedi su un terreno che vibrando crolla a pezzi. 158. Spesso su queste terre, 159. Che, deserte, di scuro 160. Sono vestite dalle onde di lava pietrificata, e sembra che la loro superficie sia liquida, 161. Vengo a sedermi durante la notte, e sopra la triste distesa, 162. nel cielo sgombro e illuminato d'azzurro incontaminato, 163. Vedo le stelle in alto brillare come fiamme, 164. Sotto le quali si distende più in là come uno specchio 165. Il mare, e vedo pieno di scintille sparse intorno 166. Per la volta celeste sgombra ("lo voto seren") il mondo brillare. 167. E poi fissò gli occhi sulle luci delle stelle, 168. A loro (gli occhi, ndr) queste sembrano non essere che un piccolo punto, 169. E invece sono immense, viceversa 170. Sono un punto per loro (le stelle) la terra e il mare 171. Ed è questa la prospettiva veritiera ("veracemente"); e perciò ("a cui") 172. Non solo l'uomo, ma anche questo 173. Pianeta dove l'uomo vive è insignificante, 174. È assolutamente privo di importanza ("sconosciuto"); e quando osservo 175. Quegli ammassi ("nodi", v.176) ancor più sterminati e irraggiungibili, 176. Di stelle, le galassie, 177. Che per noi assomigliano alla nebbia, alle quali non solo l'uomo, 178. Non solo la terra, ma tutte insieme 179. Nel loro numero infinito e nella loro massa, 180. Con il sole dorato insieme, le stelle 181. O sono anche esse sconosciute, o appaiono 182. come essi appaiono alla terra, un piccolo puntino 183. Di luce sfocata; alla luce di queste riflessioni, nel mio pensiero 184. Quale immagine può mai comparire di te ("che sembri allora"), o stirpe 185. Degli esseri umani? E ricordando 186. La condizione in cui vivi quaggiù, della quale è simbolo 187. Il terreno vulcanico che sto calpestando in questo momento; e pensando invece dal tuo punto di vista ("dall'altra parte") 188. Che tu ti pensi signora, stirpe degli umani, e che un fine logico 189. Credi sia posto in capo all'Universo, e pensando a quante volte 190. Ti sei divertita a raccontar favole su come, su questo minuscolo e oscuro 191. Granello di sabbia, che è detto pianeta terra, 192. A causa della tua presenza, siano scesi gli dèi creatori ("scender gli autori", v.193) dell'universo 193. E di come spesso conversarono 194. Piacevolmente con i tuoi simili, e i già ridicolizzati sogni 195. Rinnovando e continuando a raccontare, e si burla dei saggi, 196. Il secolo presente, il quale per conoscenze 197. E civiltà di usi e costumi 198. Sembra dover superare tutti i precedenti, quale sentimento ("moto") allora, 199. Infelice stirpe degli esseri umani, o quale opinione 200. Sul tuo conto può infine riempirmi il cuore? 201. Io davvero non so se sia più forte in me il senso del ridicolo o la compassione nei tuoi confronti. 202. Come quando da un albero una piccola mela, 203. Sul finire dell'autunno, 204. Per forza di maturazione e null'altro cade, 205. E la piccola tana di una colonia di formiche, 206. Scavata nella terra tenera 207. Attraverso un paziente lavoro, e le costruzioni 208. E le ricchezze lì radunate per sicurezza, 209. Con tanta fatica dai laboriosi membri del branco, 210. Che erano state raccolte prudentemente durante l'estate, 211. Schiaccia, stermina e copre 212. In un attimo; alla stessa maniera precipitando dall'alto, 213. Dal cratere ("utero") tonante 214. Sparata nel cielo infinito, 215. Fatta di ceneri, sassi e rocce, 216. Una nube oscura di sfacelo e rovina, sotto la quale scorrevano 217. Torrenti di lava bollente, 218. per il pendio della montagna, 219. Come una furia tra l'erba, 220. Fatti di massi disciolti 221. E metalli e di sabbia incendiata, 222. Scendendo, un'immensa piena di lava, 223. Le città che il mare laggiù sulla spiaggia più lontana 224. Bagnava, disciolse 225. E distrusse e ricoprì 226. In pochi istanti: e su quelle ora pascolano 227. Le capre, e nuove città 228. Sono nate all'esterno della colata ("dall'altra banda"), alle quali quasi da sgabello e sostegno 229. Fanno quelle sepolte, e le antiche mura crollate 230. Sono ai piedi del monte impietoso che quasi le calpesta. 231. Per la natura il popolo 232. Umano non è più caro o importante 233. Di quanto non lo siano le formiche: e se capita più spesso 234. Lo sterminio di questa specie rispetto alla nostra, 235. Ciò d'altronde accade 236. Solo perché l'uomo ha meno capacità di riprodursi ("prosapie"=generazioni). 237. Ben mille e ottocento 238. Anni sono passati da quando scomparirono, schiacciati 239. Dalla forza del fuoco vulcanico, gli edifici che furono abitati, 240. E il povero contadino, quando cura 241. Le vigne, che a fatica su questi terreni 242. Sono nutriti dalla terra bruciata e sterile, 243. Ancora talvolta alza gli occhi 244. Guardingo verso la cima del monte 245. Assassino, che da nulla fu mai scalfita né resa più tenera 246. Ed ancora sta lì spaventosa, ancora minaccia 247. Di annientare lui e i suoi figli e le poche ricchezze 248. Che essi, poveri, hanno. E spesso 249. Il disgraziato sale sul tetto 250. Della casa contadina, stando all'aria aperta 251. Sdraiato senza dormire per tutta la notte, 252. E sobbalzando per la tensione più e più volte, segue il corso 253. Del temuto ribollire, che scende 254. Dal mai sazio cratere 255. Sul crinale roccioso, sul quale si riflette 256. Il profilo di Capri 257. E il porto di Napoli e il quartiere Mergellina. 258. E se capisce che la lava si avvicina, oppure se nel fondo scuro 259. Del pozzo di casa capita che egli senta l'acqua 260. Borbottare ribollendo per il calore sotterraneo, sveglia i figli, 261. Sveglia la moglie in fretta e furia, e via, con quanto 262. Essi possono in quel momento prendere di ciò che possiedono, fuggendo di corsa, 263. Egli vede allontanandosi la familiare 264. Sua dimora, e il piccolo campo, 265. Tutto ciò che gli permetteva di scampare alla fame, 266. Invaso dall'ondata lavica, 267. Che arriva scoppiettando mentre brucia tutto ciò che incontra, e inarrestabile 268. Si assesta sopra quei luoghi per sempre. 269. Torna a vedere la luce del sole 270. Dopo un oblio lunghissimo la distrutta 271. Pompei, come un seppellito 272. Scheletro, al quale la terra 273. Stufa di tenerlo racchiuso in sé o pietosa permette di uscire allo scoperto; 274. E dal foro, la piazza, desolata 275. Guardando dritto tra le file parallele 276. Dei portici le cui colonne sono state mozzate a metà dalla lava, chi visita il sito ("il peregrino") 277. Può osservare da lontano il profilo a forma di conca della montagna (il "bipartito giogo") 278. E il cratere fumante, 279. Che ancora minacciano le rovine sparsi qui e là. 280. E nella paura della notte buia ("secreta") 281. Tra i teatri vuoti, 282. Tra gli antichi templi distrutti e tra le macerie 283. Delle case, dove si riproducono nell'oscurità i pipistrelli, 284. Come un fantasma maligno ("sinistra face") 285. Che si aggira oscuro per antichi palazzi abbandonati, 286. Corre la luce della lava mortale 287. Che in lontananza tra le ombre 288. Si intravede nel suo rossore e colora i luoghi che circondano i resti della città. 289. È così, inconsapevole dell'uomo e delle sue età, 290. Che solo lui chiama antiche, del susseguirsi 291. Di antenati e pronipoti, 292. Che sta la natura, eternamente giovane ("ognor verde"), e anzi percorre 293. Un cammino tanto lungo e lento 294. Che essa sembra star ferma e immobile. Cadono nel frattempo i regni, 295. Nascono e muoiono gli uomini e cambiano le loro lingue: lei semplicemente non se ne avvede: 296. E l'uomo si attribuisce vantandosi con superbia un'aura di eternità. 297. E tu, tenera ginestra, 298. Che di boschi profumati 299. Decori queste campagne spoglie, 300. Anche tu presto alla crudele e impietosa potenza 301. Della lava sotterranea dovrai soccombere, 302. La quale passando di nuovo 303. Sui luoghi già da lei bruciati, stenderà il suo funebre lenzuolo ("lembo") 304. Sui tuoi morbidi cespugli. E sarai costretta a piegare 305. Sotto la colata assassina, senza poter resistere ("non renitente") 306. La tua testa innocente: 307. Ma mai fino ad allora essa è stata piegata 308. Per supplicare in maniera vigliacca di fronte 309. A chi l'avrebbe schiacciata; ma mai essa è stata sollevata 310. Con folle superbia verso il cielo e gli astri, 311. E neppure verso il deserto, dove 312. Hai vissuto e sei nata 313. Non per tua volontà ma per caso; 314. Ma sei più saggia, ma sei tanto 315. meno debole e insana dell'uomo, poiché le tue fragili 316. generazioni non hai mai creduto 317. poter essere immortali per volere del destino o addirittura di te stessa. |
Parafrasi discorsiva
[vv. 1-51] Qui sul crinale (schiena, v.1) desolato del monte spaventoso (formidabile, v.2) e distruttore Vesuvio, il quale non è ornato dai colori di nessun altro arbusto o fiore, spargi intorno i tuoi cespi solitari, profumata ginestra, felice nelle terre desolate. Un'altra volta ("anco", v.7) ti vidi che abbellivi con i tuoi steli anche i terreni solitari che circondano Roma ("la cittade", v.9), la città regina ("donna", v.10) degli esseri umani una volta, e dell'Impero ormai da tempo caduto. E sembra (par che) che queste campagne con il loro silenzioso e cupo aspetto testimonino e ricordino a chi vi passa (passeggero) il passato di quei luoghi. Ti rivedo adesso su questo terreno, tu che ami i luoghi malinconici e isolati dal resto del mondo, e accompagni sempre ciò che dalla grandezza è caduto in disgrazia ("afflitte fortune", v.16). Questi campi sui cui sono distese ceneri che li rendono sterili, e coperti dalla lava dissecata e ormai divenuta roccia che rintocca sotto i passi di chi la calpesta ("peregrin", v.20); dove si nasconde nella sua tana o si distende arrotolandosi al sole il serpente, e dove alla familiare e profonda tana ("covil", v.23) torna il coniglio; furono coltivati questi campi e popolati di ricche città, ("liete ville", v.24) e biondeggiarono di grano e messi, e risuonò l'aria dei muggiti delle mandrie, vi furono giardini e regge sontuose, per lo svago dei potenti luogo prediletto; e vi furono città celebri che con i suoi fiumi di lava il vulcano prepotente ("altero", v.30) tuonando ("fulminando", v.31) dalla sua bocca infuocata seppellì insieme a tutti i loro abitanti. Ora tutto qui intorno è avvolto in uno sfacelo, dove tu cresci, o fiore delicato, e come se stessi piangendo le disgrazie altrui, nell'aria spargi un odore finissimo e profumato, che raddolcisce il dolore del deserto. In questi luoghi venga chi ha l'abitudine ("ha in uso", v.39) di entusiasmarsi della nostra condizione di esseri umani, e guardi con i propri occhi quanto è cara ("in cura", v.40) la nostra specie ("il gener nostro", v.40) alla benevola natura. E la potenza dell'uomo ("uman seme", v.43) in questo posto con giusto metro di misura potrà valutare con esattezza, a cui la natura, come una severa balia ("dura nutrice", v.44), nel momento in cui egli ha meno paura di essere sorpreso, con un minimo moto nell'attimo appena di un secondo è capace di radere al suolo ("annichilare", v.48) gran parte di ciò che egli crea e con moti ancora più leggeri in un baleno distruggere tutto ciò che ne rimane. Qui su queste pendici ("rive", v.49) come in un quadro è del genere umano ritratto il destino di splendore e progresso.
[vv. 52-86] Vieni qui a guardarti in viso e specchiarti, secolo vano e superbo, che la via ("il calle", v.54) sino ad ora percorsa dal pensiero ritrovato del Rinascimento hai abbandonato, e sei tornato indietro, e vantandoti del tuo cammino a ritroso, lo chiami avanzamento e progresso. Il tuo infantilismo ("pargoleggiar", v.59) tutti gli intellettuali, ai quali sei padre viste le loro posizioni erronee ("sorte rea", v.60), adulano e lodano continuamente, anche se a volte ti prendono in giro ("a ludibrio", v.62) e ti scherniscono segretamente ("tra sé", v.63). Non io, io non morirò ("scenderò sotterra", v.64) comportandomi in un modo tanto infamante; piuttosto il disprezzo profondo racchiuso nel mio cuore per te dimostrerò più apertamente che si possa: nonostante io sappia bene che l'oblio è la pena per chi fu troppo sgradito all'età in cui visse. Di questa pena, che con te condivido, per il momento non mi preoccupo affatto e anzi mi pare ridicola. Sogni di essere libero, e vuoi nello stesso momento che sia servo di nuovo il pensiero, la sola cosa a cui si deve la nostra resurrezione parziale dalla barbarie passata, e la sola in virtù della quale cresce la cultura e la civiltà, unico oggetto che verso il meglio indirizza il destino dei popoli ("pubblici fati", v.77). Così hai disprezzato la realtà del destino amaro e del luogo piccolo e meschino che la natura ci ha concesso. Per questo le spalle ("il tergo", v.80) hai volto da vigliacco alla luce della ragione ("il lume", v.81) che ci ha svelato il vero: e, fuggendo, chiami con il nome di vile chi la segue, e semplicemente magnanimo chi prendendosi gioco di se stesso o degli altri, furbo o forse pazzo, innalza ("estolle", v.86) sino alle stelle l'urlo disperato degli uomini.
[vv. 87-157] Un uomo umile e malato ("povero stato e membra inferme", v.87) che sia tuttavia nell'animo generoso e nobile, non si ritiene né si definisce da solo ricco di tesori né forte, e di vita sfarzosa o vigorosa costituzione del corpo, tra le persone non si vanta in maniera ridicola; ma essendo come un mendicante che deve chiedere ad altri sostegno e denaro lascia che il suo stato si noti senza vergognarsi, e chiama, quando ne parla, apertamente le cose con il loro vero nome e le valuta con esattezza ("chiama e fa stima al vero uguale", v.97). Un uomo dotato di sagacia ("magnanimo", v.98) io non considero infatti ("già", v.99), piuttosto uno sciocco, chi, essendo nato per morire e nutrito unicamente di sofferenza, dice, sono fatto per godere, e di orgoglio nauseante riempie libri; un futuro splendido e felicità tutte nuove, che nemmeno l'universo intero conosce, e tanto meno questo pianeta, promette sulla terra a una massa di popoli che un'onda di mare in tempesta o un semplice respiro di aria infetta da una pestilenza ("aura maligna", v.108) o un terremoto ("sotterraneo crollo", v.108) sono capaci di annientare a tal punto, che sopravviverebbe ("avanza", v.109) a stento di loro il ricordo. Una nobile natura è invece quella di chi osa sollevare gli occhi come semplice uomo contro il destino comune a tutti, e con lingua sincera e schietta, non togliendo nulla a ciò che è vero, confessa e parla apertamente del dolore che ci è stato assegnato per destino e lo stato infimo e debole in cui viviamo; è una natura nobile quella che tenace e solida si mostra nella sofferenza, né odio e rabbia verso i propri fratelli esseri umani, sentimenti più gravi di ogni altra disgrazia, aggiunge alle sventure che già prova di per sé, non incolpando perciò l'uomo come causa dei propri mali, ma accusando colei che davvero è colpevole, la Natura, che degli esseri umani è madre perché li ha generati ma matrigna per come si comporta con loro ("madre di parto e di voler matrigna", v.125). È lei che devi chiamare nemica; e contro di lei pensando se stessa come unita e schierata all'unisono ("ordinata in pria", v.128), com'è giusto e vero, la società umana considera tutti tra loro alleati gli uomini e tutti li abbraccia insieme con sincero amore, porgendo o aspettando sempre un aiuto veloce ed efficace tra le tantissime minacce e paure della guerra che tutti combattono insieme. E con le ingiurie verso i propri simili armare la mano degli uomini, o porre ostacoli ("laccio", v.136) o intralciare chi ci sta vicino reputa stupido, così come lo sarebbe ("fora", v.138) chi in un campo di battaglia, circondato dai nemici, nel pieno delle ondate incalzanti della parte avversa, dimenticandosene, cominciasse ad aprire dispute aspre con i propri compagni di battaglia, metterli in fuga e colpirli a morte ("fulminar", v.143) brandendo la propria spada tra i soldati della propria schiera. Un ragionamento di questo tipo, quando sarà, come lo è stato in fondo già in passato, noto a chiunque, e quel sacro terrore che all'alba dei tempi ("orror primo", v.147) contro la Natura malvagia strinse tutti gli uomini come gli anelli di una catena sarà riportato tra noi almeno in parte dalla conoscenza del Vero ("verace saper", v.151), l'onestà e la rettitudine nei rapporti tra gli uomini ("conversar cittadino", v.152), la giustizia e la pietà, un altro fondamento più profondo ("radice", v.153) avranno delle farneticazioni illusorie e ottuse ("superbe fole", v.154), sulle quali il coraggio dei popoli ("probità del volgo", v.155) potrebbe stare in piedi così come ci starebbe chi poggia i piedi su un terreno che vibrando crolla a pezzi.
[vv. 158-200] Spesso su queste terre, che, deserte, di scuro sono vestite dalle onde di lava pietrificata, e sembra che la loro superficie sia liquida, vengo a sedermi durante la notte, e sopra la triste distesa, nel cielo sgombro e illuminato d'azzurro incontaminato, vedo le stelle in alto brillare come fiamme, sotto le quali si distende più in là come uno specchio il mare, e vedo pieno di scintille sparse intorno per la volta celeste sgombra ("lo voto seren", v.166) il mondo brillare. E poi fissò gli occhi sulle luci delle stelle, a loro (gli occhi, ndr) queste sembrano non essere che un piccolo punto, e invece sono immense, viceversa sono un punto per loro (le stelle, ndr) la terra e il mare ed è questa la prospettiva veritiera ("veracemente", v.171); e perciò ("a cui", v.171) non solo l'uomo, ma anche questo pianeta dove l'uomo vive è insignificante, è assolutamente privo di importanza ("sconosciuto", v.174); e quando osservo quegli ammassi ("nodi", v.176) ancor più sterminati e irraggiungibili di stelle, le galassie, che per noi assomigliano alla nebbia, alle quali non solo l'uomo, non solo la terra, ma tutte insieme nel loro numero infinito e nella loro massa, con il sole dorato insieme, le stelle, o sono anche esse sconosciute, o appaiono come essi appaiono alla terra, un piccolo puntino di luce sfocata; alla luce di queste riflessioni, nel mio pensiero quale immagine può mai comparire di te ("che sembri allora", v.184), o stirpe degli esseri umani? E ricordando la condizione in cui vivi quaggiù, della quale è simbolo il terreno vulcanico che sto calpestando in questo momento; e pensando invece dal tuo punto di vista ("dall'altra parte", v.187) che tu ti pensi signora, stirpe degli umani, e che un fine logico credi sia posto in capo all'Universo, e pensando a quante volte ti sei divertita a raccontar favole su come, su questo minuscolo e oscuro granello di sabbia, che è detto pianeta terra, a causa della tua presenza, siano scesi gli dèi creatori ("scender gli autori", v.193) dell'universo e di come spesso conversarono piacevolmente con i tuoi simili, e i già ridicolizzati sogni rinnovando e continuando a raccontare, si burla dei saggi il secolo presente, il quale per conoscenze e civiltà di usi e costumi sembra dover superare tutti i precedenti, quale sentimento ("moto", v.198) allora, infelice stirpe degli esseri umani, o quale opinione sul tuo conto può infine riempirmi il cuore?
[vv. 201-236] Io davvero non so se sia più forte in me nei tuoi confronti il senso del ridicolo o la compassione. Come quando da un albero una piccola mela, sul finire dell'autunno, per forza di maturazione e null'altro cade, e la piccola tana di una colonia di formiche, scavata nella terra tenera attraverso un paziente lavoro, e le costruzioni e le ricchezze lì radunate per sicurezza con tanta fatica dai laboriosi membri del branco, che erano state raccolte prudentemente durante l'estate, schiaccia, stermina e copre in un attimo; alla stessa maniera precipitando dall'alto, dal cratere ("utero", v.213) tonante sparata nel cielo infinito, fatta di ceneri, sassi e rocce, una nube oscura di sfacelo e rovina, sotto la quale scorrevano torrenti di lava bollente, per il pendio della montagna, come una furia tra l'erba, fatti di massi disciolti e metalli e di sabbia incendiata, scendendo, un'immensa piena di lava, le città che il mare laggiù sulla spiaggia più lontana bagnava, disciolse e distrusse e ricoprì in pochi istanti: e su quelle ora pascolano le capre, e nuove città sono nate all'esterno della colata ("dall'altra banda", v.228), alle quali quasi da sgabello e sostegno fanno quelle sepolte, e le antiche mura crollate sono ai piedi del monte impietoso che quasi le calpesta. Per la natura il popolo umano non è più caro o importante di quanto non lo siano le formiche: e se capita più spesso lo sterminio di questa specie rispetto alla nostra, ciò d'altronde accade solo perché l'uomo ha meno capacità di riprodursi ("prosapie"=generazioni, v.236).
[vv. 237-296] Ben mille e ottocento anni sono passati da quando scomparirono, schiacciati dalla forza del fuoco vulcanico, gli edifici che furono abitati, e il povero contadino, quando cura le vigne, che a fatica su questi terreni sono nutriti dalla terra bruciata e sterile, ancora talvolta alza gli occhi guardingo verso la cima del monte assassino, che da nulla fu mai scalfita né resa più tenera ed ancora sta lì spaventosa, ancora minaccia di annientare lui e i suoi figli e le poche ricchezze che essi, poveri, hanno. E spesso Il disgraziato sale sul tetto della casa contadina, stando all'aria aperta sdraiato senza dormire per tutta la notte, e sobbalzando per la tensione più e più volte, segue il corso del temuto ribollire, che scende dal mai sazio cratere sul crinale roccioso, sul quale si riflette il profilo di Capri e il porto di Napoli e il quartiere Mergellina. E se capisce che la lava si avvicina, oppure se nel fondo scuro del pozzo di casa capita che egli senta l'acqua borbottare ribollendo per il calore sotterraneo, sveglia i figli, sveglia la moglie in fretta e furia, e via, con quanto essi possono in quel momento prendere di ciò che possiedono, fuggendo di corsa, egli vede allontanandosi la familiare sua dimora, e il piccolo campo, tutto ciò che gli permetteva di scampare alla fame, invaso dall'ondata lavica, che arriva scoppiettando mentre brucia tutto ciò che incontra, e inarrestabile si assesta sopra quei luoghi per sempre. Torna a vedere la luce del sole dopo un oblio lunghissimo la distrutta Pompei, come un seppellito scheletro, al quale la terra, stufa di tenerlo racchiuso in sé o pietosa, permette di uscire allo scoperto; e dal foro, la piazza, desolata guardando dritto tra le file parallele dei portici le cui colonne sono state mozzate a metà dalla lava, chi visita il sito ("il peregrino", v.276) può osservare da lontano il profilo a forma di conca della montagna (il "bipartito giogo", v. 277) e il cratere fumante, che ancora minacciano le rovine sparse qui e là. E nella paura della notte buia ("secreta", v.280) tra i teatri vuoti, tra gli antichi templi distrutti e tra le macerie delle case, dove si riproducono nell'oscurità i pipistrelli, come un fantasma maligno ("sinistra face", v.284) che si aggira oscuro per antichi palazzi abbandonati, corre la luce della lava mortale che in lontananza tra le ombre si intravede nel suo rossore e colora i luoghi che circondano i resti della città. È così, inconsapevole dell'uomo e delle sue età, che solo lui chiama antiche, del susseguirsi di antenati e pronipoti, che sta la natura, eternamente giovane ("ognor verde", v.292), e anzi percorre un cammino tanto lungo e lento che essa sembra star ferma e immobile. Cadono nel frattempo i regni, nascono e muoiono gli uomini e cambiano le loro lingue: lei semplicemente non se ne avvede: e l'uomo si attribuisce vantandosi con superbia un'aura di eternità.
[vv. 297-317] E tu, tenera ginestra, che di boschi profumati decori queste campagne spoglie, anche tu presto alla crudele e impietosa potenza della lava sotterranea dovrai soccombere, la quale passando di nuovo sui luoghi già da lei bruciati, stenderà il suo funebre lenzuolo ("lembo", v. 303) sui tuoi morbidi cespugli. E sarai costretta a piegare sotto la colata assassina, senza poter resistere ("non renitente", v. 305) la tua testa innocente: ma mai fino ad allora essa è stata piegata per supplicare in maniera vigliacca di fronte a chi l'avrebbe schiacciata; ma mai essa è stata sollevata con folle superbia verso il cielo e gli astri, e neppure verso il deserto, dove hai vissuto e sei nata non per tua volontà ma per caso; ma sei più saggia, ma sei tanto meno debole e insana dell'uomo, poiché le tue fragili generazioni non hai mai creduto poter essere immortali per volere del destino o addirittura di te stessa.
Figure Retoriche
Apostrofi: v. 6, v. 53, vv. 184-185, v. 199, v. 297: "odorata ginestra", "secol superbo e sciocco", "o prole / dell'uomo?", "mortal prole infelice", "e tu, lenta ginestra". Il poeta chiama in causa direttamente degli oggetti astratti e dialoga con loro. Le varie apostrofi indicano la suddivisione tematica delle strofe
Endiadi: v. 13, v. 51, v. 53, vv. 87-97, v. 117: "fede e ricordo", "magnifiche sorti e progressive", "superbo e sciocco", "Uom di povero stato e membra inferme / che sia dell'alma generoso ed alto, / non chiama sé né stima / ricco d'or né gagliardo, / e di splendida vita o di valente / persona infra la gente / non fa risibil mostra; / ma sé di forza e di tesor mendico / lascia parer senza vergogna, e noma / parlando, apertamente, e di sue cose / fa stima al vero uguale.", "e il basso stato e frale". Figura molto ricorrente nello stile leopardiano, se ne possono trovare numerosissime nel testo. Il poeta crea un andamento a coppie di aggettivi per descrivere con enfasi i concetti di cui parla.
Allitterazioni: v. 15: "del mondo abbandonati amante". Figura di suono che calcando suoni dolci indica la tenerezza della ginestra.
Ossimori: v. 16: "afflitte fortune". Contrasto tra i termini che esprime il concetto di decadenza o splendore ormai offuscato dal tempo.
Anastrofi: v. 15, v. 51: "dal mondo abbandonati amante", "magnifiche sorti e progressive". Esempi di figure di inversione che danno ritmo poetico alla poesia ed evidenziano concetti chiave tramite lo slittamento del ritmo.
Anafore: vv. 24-29, v. 246, vv. 260-261, vv. 281-283, vv. 307-315: "fur liete ville e colti, / e biondeggiàr di spiche, e risonaro / di muggito d'armenti; / fur giardini e palagi, / agli ozi de' potenti / gradito ospizio; e fur città famose". Enfasi posta sul passato remoto per evidenziare il fatto della scomparsa di questi luoghi "ancor siede tremendo, ancor minaccia". Sottolinea il timore non ancora spento del vulcano dopo 1800 anni "desta i figliuoli / desta la moglie in fretta". Ripetizione che esprime la concitazione data dalla paura "per li vacui teatri / per li templi deformi e per le rotte / case". Il "per" ripetuto esprime l'onnipresenza minacciosa della lava tra le rovine "Ma non piegato insino allora indarno / Codardamente supplicando innanzi / Al futuro oppressor; ma non eretto / Con forsennato orgoglio inver le stelle, / Né sul deserto, dove / E la sede e i natali / Non per voler ma per fortuna avesti; / Ma più saggia, ma tanto / Meno inferma dell'uom, quanto le frali". Ripetizione del "ma" che enfatizza l'atteggiamento opposto della pianta rispetto a quello umano.
Iperbato: vv. 24-29, vv. 41-48: "fur liete ville e colti, / e biondeggiàr di spiche, e risonaro / di muggito d'armenti; / fur giardini e palagi, / agli ozi de' potenti / gradito ospizio; e fur città famose/ e la possanza / qui con giusta misura / anco estimar potrà dell'uman seme, / cui la dura nutrice, ov'ei men teme, / con lieve moto in un momento annulla / in parte, e può con moti / poco men lievi ancor subitamente / annichilare in tutto.". Esempi di costruzione sintattica estremamente complessa, fatta di incisi e inversioni che si ritrova per l'intero testo.
Sineddoche: v. 25, v. 103, v. 303: "spiche", "carte" (per libri), "lembo" (x lenzuolo): termini che esprimono metaforicamente le immagini che il poeta usa per le descrizioni degli ambienti in cui si trova.
Asindeti: v. 211: "schiaccia, diserta e copre". Accelerazione ritmica che indica la velocità con cui la mela distrugge il formicaio.
Polisindeti: vv. 24-29, vv. 87-97, v. 117, vv. 135-144, vv. 151-153, v. 215, vv. 220-221, vv. 224-225, v. 247: "fur liete ville e colti, / e biondeggiàr di spiche, e risonaro / di muggito d'armenti; / fur giardini e palagi, / agli ozi de' potenti / gradito ospizio; e fur città famose". Elenco che accumula gli elementi dello splendore di quelle regioni prima dell'eruzione vulcanica, "Uom di povero stato e membra inferme / che sia dell'alma generoso ed alto, / non chiama sé né stima / ricco d'or né gagliardo, / e di splendida vita o di valente / persona infra la gente / non fa risibil mostra; / ma sé di forza e di tesor mendico / lascia parer senza vergogna, e noma / parlando, apertamente, e di sue cose / fa stima al vero uguale.". Enfasi sulle qualità dell'uomo umile e amante del Vero; "e il basso stato e frale". Addizione delle qualità infime dell'uomo alla descrizione che ne è stata data, "Ed alle offese / dell'uomo armar la destra, e laccio porre / Al vicino ed inciampo, / stolto crede così qual fora in campo / cinto d'oste contraria, in sul più vivo / incalzar degli assalti, / gl'inimici obbliando, acerbe gare / imprender con gli amici, / e sparger fuga e fulminar col brando / infra i propri guerrieri.". Elenco rallentato e ridondante delle azioni sciocche compiute da chi se la prende con i propri simili, "da verace saper, l'onesto e il retto / conversar cittadino, / e giustizia e pietade". Viceversa, viene proposto un elenco delle attività virtuose portate dalla conoscenza del vero, "di ceneri, e di pomici e di sassi". Materiali di cui è composta la nube generata dall'eruzione, "di liquefatti massi, / e di metalli e d'infocata arena". Elenco parallelo dei materiali di cui è composta la colata lavica, "confuse / e infranse e ricoperse". Come la mela descritta in precedenza, la lava in tre passaggi successivi annienta le città, "a lui la strage ed ai figli ed agli averi". Elenco che indica la distruzione totale di tutto ciò a cui il personaggio tiene.
Ironia: vv.39-41, v.51, vv. 56-58: "e vegga quanto / il gener nostro è in cura / all'amante natura", "magnifiche sorti e progressive", "e volti addietro i passi, / del ritornar ti vanti, e procedere il chiami.". Il senso da leggere è opposto a quello letterale. Il poeta prende in giro chi utilizza queste espressioni.
Climax: v. 36, vv. 177-180, v. 211, v. 215, vv. 220-221, vv. 224-225: "di dolcissimo odor mandi un profumo,", "a cui non l'uomo / E non la terra sol, ma tutte in uno, / Del numero infinite e della mole, / Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle", "schiaccia, diserta e copre", "di ceneri, di pomici e di sassi", "di liquefatti massi, / e di metalli e d'infocata arena", "confuse / e infranse e ricoperse". Figure che indicano in elenco un crescendo di grandezza enfatizzando il concetto di distanza fra la prospettiva infima dell'uomo e la grandezza delle cose naturali.
Antitesi: vv. 59-67: "Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti, / di cui lor sorte rea padre ti fece, / vanno adulando, ancora / ch'a ludibrio talora / t'abbian fra sé. Non io / con tal vergogna scenderò sotterra; / ma il disprezzo piuttosto che si serra / di te nel petto mio, /mostrato avrò quanto si possa aperto:". Periodo che pone in antitesi l'atteggiamento dei colti che nascondono in petto il vero e fanno sfoggio di adulazione e quello del poeta che tiene in petto ed esprime apertamente il disprezzo verso la natura matrigna.
Metafore: v. 44, v. 49, v. 94, v. 149, v. 176, vv. 190-191, vv. 228-229, v. 213, v. 254: "dura nutrice" . Riferito alla natura e la sua severità, "dipinte in queste rive": paragone tra la scena reale che il poeta vede e un quadro. "di forza e di tesor mendico". Mendico è riferito all'uomo povero e infermo che non ha forza né salute e deve perciò chiederne agli altri, "social catena". Il concetto, celebre, della catena indica il legame indissolubile e ferreo che Leopardi auspica tra gli uomini "nodi quasi di stelle". Il nodo richiama la forma e l'ammucchiarsi delle stelle nelle galassie, "questo oscuro / granel di sabbia". Riferito al pianeta Terra e la sua dimensione minuscola rispetto all'universo, "a cui sgabello / son le sepolte". Le città sepolte dalla lava sono quelle dove le nuove poggiano le loro fondamenta, "utero tonante" e "inesausto grembo". Il cratere vulcanico è designato da termini legati al corpo femminile e alla gravidanza, i quali richiamano il concetto di natura madre e matrigna.
Chiasmi: vv. 100-101, v. 125: "quel che nato a perir, nutrito in pene, / dice, a goder son fatto". Rapporto posto tra la condizione di ognuno e le convinzioni erronee di cui questo si nutre "madre è di parto e di voler matrigna". Celebre verso che descrive la natura che genera gli esseri umani e poi rinnega i propri figli.
Zeugma: vv. 41-48, vv. 107-109: "E la possanza / qui con giusta misura / anco estimar potrà dell'uman seme, / cui la dura nutrice, ov'ei men teme, / con lieve moto in un momento annulla / in parte, e può con moti / poco men lievi ancor subitamente / annichilare in tutto.", "un'onda / di mar commosso, un fiato / d'aura maligna, un sotterraneo crollo /distrugge sì". Entrambi i periodi reggono su un verbo posto in coda che indica l'annientamento totale.
Perifrasi: vv. 107-109: "un'onda / di mar commosso, un fiato / d'aura maligna, un sotterraneo crollo / distrugge sì". Espressioni che chiamano attraverso una descrizione un soggetto preciso (tempesta, pandemia, terremoto).
Epifrasi: v. 117, v. 201, v. 296: "e il basso stato e frale", "Non so se il riso o la pietà prevale", "e l'uom d'eternità s'arroga il vanto". Versi che concludono ragionamenti del poeta e commentano in forma lapidaria, o anche ironica, quanto espresso nei versi precedenti.
Figura etimologica: vv. 111-118-123-124, vv. 167-170: "Nobil natura è quella / [...] quella che è grande e forte / [...] dà la colpa a quella / che veramente è rea". Gioco sul dimostrativo "quella" associata a "natura" e a "Natura", ossia la natura, il carattere dell'uomo virtuoso, e la "Natura", matrigna malvagia degli esseri umani, "E poi che gli occhi a quelle luci appunto, / Ch'a lor sembrano un punto, / E sono immense, in guisa / Che un punto a petto a lor son terra e mare". Con i termini "luci" e "lor" il poeta si riferisce prima agli occhi e poi alle stelle, entrambi gli elementi si guardano a vicenda e la poesia ne inverte la prospettiva.
Anacoluti: vv. 135-144: "Ed alle offese / dell'uomo armar la destra, e laccio porre / Al vicino ed inciampo, / stolto crede così qual fora in campo / cinto d'oste contraria, in sul più vivo / incalzar degli assalti, / gl'inimici obbliando, acerbe gare / imprender con gli amici, / e sparger fuga e fulminar col brando / infra i propri guerrieri.". Accelerazione del ritmo poetico con accumulo di elementi che dipendono da un verbo non presente.
Similitudini: vv. 135-144, vv. 156-157, vv. 158-160, vv. 202-226, vv. 271-272, vv. 284-285: "Ed alle offese / dell'uomo armar la destra, e laccio porre / Al vicino ed inciampo, / stolto crede così qual fora in campo / cinto d'oste contraria, in sul più vivo / incalzar degli assalti, / gl'inimici obbliando, acerbe gare / imprender con gli amici, / e sparger fuga e fulminar col brando / infra i propri guerrieri.". Lunga figura che esprime la stupidità di chi se la prende con i propri simili, "così star suole in piede quale star può quel / ch'ha in error la sede.". Riferimento metaforico ai ragionamenti che non stanno in piedi su basi non veritieri, con il termine "error" (letteralmente "movimento/tremolio") Leopardi allude di nuovo ai terremoti generati dal Vesuvio che ispirano la poesia, "Sovente in queste rive, / Che, desolate, a bruno / Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,". Metafora che accomuna l'ondata lavica a quella marina, che sotto il Vesuvio si riflette a specchio, "Come d'arbor cadendo un picciol pomo / [...] / così dall'utero tonante / [...] in pochi istanti". Lunga similitudine che accomuna le città umane distrutte dalla lave alle colonie di formiche distrutte da una semplice mela, "come sepolto scheletro", "come sinistra face / che per li vòti palagi atra s'aggiri". Brevi riferimenti metaforici che chiamano in causa elementi spettrali nella descrizione notturna di Pompei.
Poliptoti: v. 146: "quando fien, come fur". Declinazione del tempo verbale dal futuro al passato: il poeta auspica che il futuro recuperi le giuste idee del passato.
Domanda retorica: vv. 183-185: "al pensier mio / che sembri allora, o prole / dell'uomo?". Domanda sarcastica e ironica che il poeta pone agli esseri umani.
Onomatopea: v. 260, v. 267: "fervendo gorgogliar", "crepitando". Figura che riproduce i rumori dell'acqua scaldata dalla lava sotterranea e degli oggetti bruciati dalla lava nella sua discesa.
Analisi e Commento
Storico-letterario
La ginestra, o il fiore del deserto fu composta da Giacomo Leopardi nel 1836 a Torre del Greco, nella villa Ferrigni, dove il poeta, debole e malato, si era rifugiato con l'amico Ranieri in seguito a un'epidemia di colera che aveva colpito la città di Napoli, in cui egli aveva trascorso l'ultimo periodo della sua vita. È il penultimo componimento che l'autore scrive prima di morire (seguito in ordine di tempo da Il tramonto della luna) e fu pubblicato postumo nell'edizione dei Canti del 1845 (Leopardi morì infatti nel 1837). La lirica occupa l'ultima posizione nella raccolta ed è fra tutte la più lunga. Per i temi trattati e per la sua forma essa può essere considerata un testamento filosofico-spirituale e una summa del pensiero leopardiano, che nell'ultimo periodo della vita dell'autore giunto ormai a maturazione, contiene una concezione del mondo e delle cose ed una serie di definizioni dei consueti temi leopardiani, come la Natura matrigna e il sarcasmo sulle "magnifiche sorti e progressive" del mondo, divenute proverbiali per la loro efficacia e originalità. La lirica è aperta da un'epigrafe ("E gli uomini vollero / piuttosto che le tenebre la luce") tratta dal Vangelo di Giovanni, che stride violentemente con il contenuto del testo. L'ultimo Leopardi è infatti profondamente disilluso dalle idee di felicità, progresso e modernità e tra i temi maggiori che egli vuole lasciare in eredità ai posteri vi è appunto una profonda critica al suo "secolo superbo e sciocco", che ai suoi occhi sembra ormai aver scelto delle illusioni per darsi aree di grandezza ed aver rifiutato la verità della misera condizione umana. Tuttavia, tra le righe della poesia, come spesso accade in Leopardi, è sempre possibile leggere uno spirito titanico di lotta contro il Vero e la Natura matrigna, simboleggiato dalla dolcezza della ginestra, pianta anch'essa destinata ad essere distrutta dalle colate laviche dell'ambiente in cui cresce, ma che continua a rinascere nei "deserti" e compiere nonostante tutto il suo ciclo vitale.
Tematico
Il componimento è suddiviso in sette strofe di lunghezza variabile, ordinate però attraverso una profonda consequenzialità logica. Osservando le ginestre sulle pendici del vulcano, Leopardi avvia un ragionamento di tipo filosofico sul proprio secolo, sull'universo e sugli uomini che nella conclusione ritorna sull'oggetto che vi aveva dato il via.
Nella prima strofa (vv.1-51), rivolgendosi attraverso varie apostrofi ai fiori profumati della pianta, il poeta vi associa il concetto di cui vuole parlare, ossia quello di decadenza, espresso dall'ossimoro "afflitte fortune" (v.16). Egli ricorda di aver visto la ginestra in due occasioni: la prima nelle campagne popolate di rovine che circondano Roma e la seconda appunto nel momento presente, sulle pendici del Vesuvio, laddove sorgevano un tempo ricche e prosperose città. La pianta sembra dunque scegliere di nascere in quei luoghi dove vi fu estrema grandezza poi caduta in disgrazia per colpa del tempo (Roma) o della crudeltà della Natura (Pompei). Il desolato paesaggio vulcanico che egli descrive diventa il simbolo del vero della storia e dell'umanità: egli invita ironicamente appunto chi celebra e inneggia alle "magnifiche sorti e progressive" (v.51) dell'umanità ad osservare con lui quei luoghi e rendersi conto di quanto fragili siano le ambizioni umane di fronte alla potenza devastante e sterminatrice della Natura.
La seconda lunghissima (vv.52-125) strofa è rivolta appunta al "secol superbo e sciocco" (v.53) in cui il poeta vive e con il quale egli instaura un dialogo di tipo morale. Leopardi è profondamente scettico sia verso le posizioni romantiche che verso quelle liberali, i cui ambienti sono però pur sempre quelli da lui frequentati. Egli non condivide l'entusiasmo in tema di progresso e civiltà che i letterati del suo tempo mostrano ed è nello stesso tempo da essi criticato per il suo profondo pessimismo. Egli considera perciò l'Ottocento padre di una serie di dottrine illusorie, che hanno sostituito al lume della cultura rinascimentale e illuministica una serie di istanze superbe e ipocrite, le quali, piuttosto che rivelare ai popoli la verità della loro condizione, promettono loro una grandezza irraggiungibile o comunque sempre soggetta a distruzione, come appunto ciò che Leopardi vede intorno a sé dimostra. Egli traccia allora un profilo dell'uomo ideale, dalla "nobil natura" (v.111), che ricorda molto la figura tradizionale di Socrate. Nella filosofia antica, il Socrate descritto da Platone era appunto un "uom di povero stato e membra inferme" (v.87), che non faceva vanto di sé ed era sapiente proprio perché "sapeva di non sapere". Una condizione di umiltà è necessaria per la conoscenza della verità ed appunto Leopardi contrappone questa figura ideale, che associa ovviamente a se stesso, a quella dei letterati suoi colleghi, i quali pur conoscendo il vero si mostrano ipocriti nascondendo nel loro cuore la conoscenza ed esaltando delle illusioni. La strofa si conclude infine con l'indicazione dell'oggetto del vero e la causa di ogni infelicità umana, la Natura "madre di parto e per voler matrigna" (v.125), tema centrale di tutta la produzione del poeta.
Sempre dando del tu al proprio secolo, nella terza strofa (vv.126-157) Leopardi lo invita a non comportarsi da sciocco e appunto rivolgere la propria guerra non verso gli esseri umani ma appunto contro la Natura. Tale concetto è espresso attraverso una lunga similitudine (vv.138-146) in cui paragona coloro che se la prendono con gli altri uomini a un soldato folle che durante l'assedio di un nemico cominci ad attaccare i propri compagni di battaglia. Quella contro la Natura è invece una guerra comune, in cui tutti gli uomini sono alleati e devono esser stretti in "social catena" (v.149) contro di essa. Il riconoscere il vero, ossia il carattere maligno della natura e l'impotenza dell'umanità, è la condizione necessaria e imprescindibile per cui i popoli possano essere uniti, giusti e retti. Ogni società basata invece su "superbe fole" (v. 154), come un sedicente progresso o una grandezza conclamata, non potrà mai stare in piedi, essendo il terreno su cui si poggia vibrante e cadente (l'"error", ossia letteralmente il tremolare) come quello vesuviano, continuamente scosso dai terremoti provocati dai movimenti della lava al di sotto del monte.
Nella quarta strofa (vv.158-201) Leopardi torna su se stesso e parla di come egli sia solito sedersi sul terreno vulcanico e osservare il cielo sfavillante di stelle riflesso dal mare. Si ferma perciò, osservando gli astri, a pensare a come quelle piccole luci siano in realtà immense e infinitamente più grandi non solo dei suoi occhi ma anche del vulcano, del mare e dello stesso pianeta terra che è già per gli uomini infinitamente grande. E le stesse stelle sono infinitamente piccole rispetto alle galassie, le nebulose e l'universo tutto intero. Egli si rivolge allora con un'apostrofe ironica all'intera umanità, e ragiona appunto su quanto siano insensate le teorie che vogliono l'uomo al centro dell'universo e celebrativo di se stesso ponendosi un'interrogativa retorica su quali siano i sentimenti che egli prova verso i suoi simili. La risposta è contenuta nell'impietosa e laconica epifrasi che chiude la strofa, "Non so se il riso o la pietà prevale" (v.201). L'ironia o la compassione sono appunto l'unica risposta a chi antepone all'evidente realtà delle cose ragionamenti vani e ottusi.
La quinta strofa (vv.202-268) raccoglie insieme i concetti che Leopardi ha legato alla Natura nelle precedenti, cioè la sua crudeltà e la sua immensità, e li spiega attraverso una similitudine. Egli paragona le città distrutte dal Vesuvio (Pompei, Ercolano e Stabia) nell'eruzione del 79 d.C. a una colonia di formiche distrutta da una mela che per forza di maturazione e quindi per il naturale corso delle cose cade dall'albero e la schiaccia distruggendola in un attimo, nonostante gli sforzi per costruirla siano stati enormi. Alla stessa maniera quelle città prospere sono state distrutte in un secondo da una terrificante nube di polveri e una colata di lava incandescente tanto più grande rispetto a loro che dopo mille e ottocento anni ancora gli abitanti sono impauriti dal cratere. Il poeta descrive l'ansia costante di un povero contadino che veglia di notte e non appena avverte i segni di una possibile eruzione è costretto ad abbandonare in fretta e furia la casa e tutto ciò che possiede per poter salvare se stesso e la propria famiglia. È questa secondo Leopardi la considerazione in cui la natura tiene i propri figli, sottolineata dal fatto che il cratere vulcanico è sempre metaforicamente descritto con immagini legate al corpo femminile gravido, "utero tonante" (v.213) e "inesausto grembo" (v.254).
Nella sesta strofa (vv.269-288) Leopardi offre una descrizione dei resti di Pompei. Gli scavi archeologici erano stati avviati sul sito nel 1748 da Carlo di Borbone e nel momento in cui il poeta scrive questi sono già visitabili. L'autore però ne dà una versione macabra: egli paragona i resti della città a uno scheletro sputato fuori dalla terra, le cui ossa sono templi diroccati, edifici coperti di polvere e colonne mozzate abitate dai pipistrelli tra le quali continua ad aggirarsi come un fantasma assassino e sterminatore la lava del Vesuvio. L'immagine notturna e cupa introduce e conclude il viaggio del pensiero leopardiano: partito dal Vesuvio e dall'odore delle ginestre, questo è passato per Napoli, l'Italia, il XIX secolo ed ha toccato le stelle e le galassie e l'universo per poi tornare gradualmente sulla terra, il Vesuvio, Pompei e le tenere piante che continuano a fiorire sulle desolate pendici vulcaniche.
Rivolgendosi nuovamente con un'apostrofe alla ginestra, nell'ultima strofa (vv. 289-317) il poeta, utilizzando enfaticamente l'anafora del "ma" negli ultimi versi del componimento, paragona la pianta all'uomo. Essa è più forte, più saggia, più sapiente dell'essere umano: anche lei sarà costretta un giorno a piegare di nuovo il "capo innocente" (v.306) all'onnipotenza del crudele vulcano, ma non avrà mai ardito vantarsi di se stessa né chinarlo vigliaccamente prima del tempo. Seguendo il vero essa continua a seguire il corso naturale della vita a cui è destinata.
Stilistico
La ginestra, o il fiore del deserto appartiene, come gran parte dei componimenti che formano l'ultima sezione dei Canti, al genere della canzone libera leopardiana, forma metrica che prende il nome proprio da Leopardi, il quale fu tra i grandi poeti italiani colui che la utilizzò con più efficacia rendendola celebre. A causa della lunghezza e del contenuto filosofico che il poeta tratta, la lirica può essere a tutti gli effetti considerata un poemetto didascalico. La peculiarità di questo genere sta nel trattare in forma poetica, ossia adottando il verso e tutta una serie di accorgimenti ritmici, delle problematiche filosofiche o scientifiche, che normalmente compaiono in prosa ad esempio in trattati o dialoghi. Essendo una canzone libera, La ginestra alterna strofe di endecasillabi e settenari e non adotta uno schema rimico regolare: considerata infatti la lunghezza del componimento le rime sono assai poche (occupano 62 versi su 317) e tendono a raggrupparsi in alcuni punti del componimento che il poeta vuole mettere in evidenza. Ad esempio, la conclusione della prima strofa presenta una rima alternata (subitamente/rive-gente-progressive, vv.47-49-50-51) e sottolinea il tema generale dello scetticismo del poeta verso gli ideali del proprio secolo. Una rima baciata sottolinea il medesimo tema a conclusione della quarta strofa con il "m'assale?" (v.200) dell'interrogativa a cui il poeta risponde con la laconica epifrasi del v.201 "Non so se il riso o la pietà prevale." La chiusura del componimento è anch'essa in rima alternata (avesti-frali-credesti-immortali, vv. 313-315-316-317) e ritorna ancora una volta sul tema dello scetticismo.
A livello ritmico e sintattico, la lirica segue un andamento logico complesso proprio perché la riflessione del poeta parte dalla ginestra e arriva a toccare la natura dell'universo e i corpi celesti. Troviamo perciò l'intero componimento strutturato in una sintassi ipotattica, ricca di incisi, interruzioni e parentesi esplicative che in forma metrica si traducono in figure retoriche come l'iperbato, l'anastrofe e lo zeugma (numerosissime nel testo) e un vasto utilizzo di enjambement (sono 213 su 317 versi totali). Il ritmo generale è perciò rallentato e inframezzato ma continuamente mantenuto fluido: il poeta vuole restituire in toto l'andamento meditativo del pensiero che, stimolato dalla visione della ginestra, considera riflessioni e obiezioni per portare avanti la propria argomentazione filosofica. Alla complessità sintattica si aggiunge la scelta di un lessico aulico, fitto di latinismi come "formidabil" (v.2); "Vesevo", (v.3); "liete ville" (v.24); "ignea" (v.31); "oppresse" (v.31); "estolle" (v.86); "d'oste" (v.140); "obblivion" (v.270), che hanno, come la struttura sintattica, la funzione di trattare argomenti alti o altissimi con un linguaggio adeguato.
Infine, a livello fonico, Leopardi contrappunta il ragionamento che conduce attraverso una serie di figure di suono che curano esteticamente il testo. La rima che è utilizzata in forma non regolare nella canzone libera viene sostituita da figure come l'anafora o la rimalmezzo e dall'utilizzo di consonanti allitteranti associate all'oggetto che il poeta descrive. Ad esempio, definendo la ginestra come essere di luoghi "dal mondo abbandonati amante" il poeta accentua suoni dolci come "n", "m", "nd" per sottolineare la dolcezza dei fiori e il loro carattere lieve, mentre nella descrizione della devastante eruzione vesuviana si ripetono suoni duri e fragorosi come "t" o "r" o "b", quest'ultima utilizzata per riprodurre il gorgogliare sotterraneo di falde acquifere e lava.
Confronti
La ginestra è la poesia che chiude i Canti e rappresenta, essendo anche pubblicata postuma, l'ultimo approdo dell'evoluzione del pensiero leopardiano. Rispetto ai primi passi, contenuti formalmente dai piccoli idilli giovanili del 1819-21, lo spirito del poeta verso la natura delle cose e il mondo è profondamente cambiato. Le illusioni, per il primo Leopardi, erano una consolazione al senso di infelicità che pervade l'intera sua produzione. Ad esempio, il celebre "dolce naufragar" nel mare dell'immaginazione che chiude L'infinito è una sensazione che ritorna anche nella Ginestra, quando il pensiero del poeta si perde nell'infinito ruotare nelle sfere celesti, tuttavia in questo caso la sensazione di questo vagare non è una dolcezza dell'animo ma un pensiero di commiserazione e derisione verso se stesso, i propri simili, il proprio secolo e l'intero pianeta terra. La definizione della Natura come una sorta di divinità "madre e matrigna" verso gli uomini compare nella Ginestra per la prima volta in questi termini esatti, ma era già presente come concetto nei Grandi idilli del 1828-30, ad esempio nel Canto notturno di un pastore errante dall'Asia, o nelle Operette morali, in un periodo in cui Leopardi aveva associato la miseria e l'infelicità non più solo a se stesso ma a tutto il genere umano. Questa visione si era poi rafforzata nella produzione successiva, ossia quella che precede immediatamente La ginestra: nell'Inno ad Arimane, composizione incompiuta in cui si descriveva la potenza di una divinità orientale crudele verso i mortali che aveva generato e nel Ciclo di Aspasia, la terza sezione dei Canti, quella in cui avviene la definitiva "strage delle illusioni". Sono significativi i versi di A se stesso in cui Leopardi da la seguente definizione di mondo e natura:
9. [...]. Amaro e noia
10. La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
13. [...] Omai disprezza
14. Te, la natura, il brutto
15. Poter che, ascoso, a comun danno impera,
16. E l'infinita vanità del tutto.
(La vita non è altro che amarezza e noia, il mondo non è che fango. [...] Ormai ti disprezza la natura, il maligno potere occulto che opera per il male di tutti noi, e l'inutilità immensa di ogni cosa)
Vediamo qui già espressi quei sentimenti di vanità degli uomini e della terra rispetto all'enormità e la potenza della natura. Tuttavia, proprio nella Ginestra il pensiero leopardiano prende inaspettatamente nuovo slancio. L'invito agli uomini di unirsi in "social catena" e condurre una lotta collettiva contro il nemico comune rappresentato dalla Natura rappresenta un unicum nella produzione dell'autore, che in punto di morte e nel pieno del pessimismo è ancora capace di trovare una forma di consolazione e lotta contro l'universale infelicità.
È interessante poi mettere in evidenza come Leopardi chiami in causa Dante Alighieri per argomentare l'argomento della libertà di pensiero. Il verso "libertà vai sognando, e servo / a un tempo vuoi di nuovo il pensiero" (vv.72-73) riproduce il "Libertà va cercando, ch'è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta." del Canto I del Purgatorio. Sono le parole con cui Virgilio descrive Catone Uticense, senatore e politico romano suicidatosi per amore della Repubblica piuttosto che piegarsi alle mire dittatoriali di Giulio Cesare. Dante nella Commedia lo pone a guardiano del Purgatorio pur essendo il personaggio storico di religione pagana proprio perché simbolo di rettitudine e integrità. Leopardi capovolge il discorso riferendosi al proprio secolo e quindi agli intellettuali liberali che frequenta, i quali sono simbolo di ipocrisia in quanto predicano e sognano libertà e progresso e denigrano qualunque opinione si discosti dalle loro entusiastiche lodi della condizione umana, com'è quella appunto di Leopardi. Proprio questo senso di esclusione provato dal poeta rispetto agli ambienti letterari che frequenta lo porta a discostarsi dalle tematiche romantiche ed anticipare quella che sarà la sensibilità decadente di fine Ottocento e inizio Novecento. Questa tendenza è ravvisabile nel definire il mondo rispetto all'universo un "oscuro / granel di sabbia" (vv.190-191). La definizione è ripresa nella lirica X agosto di Giovanni Pascoli, in cui il poeta romagnolo mette a paragone il pianto di stelle cadenti della notte estiva in cui si celebra l'anniversario dell'assassinio del padre con la piccolezza dell'"atomo opaco di male", termini con i quali, imitando Leopardi, egli designa la terra.
Domande e Risposte
In quale posizione si trova La ginestra nei Canti?
La ginestra è la poesia che chiude la raccolta.
Dov'è stata composta la poesia?
La poesia fu composta a Torre del Greco nel 1836, nella villa Ferrigni in cui il poeta trascorse gli ultimi anni.
Qual è il tema principale del componimento?
Il tema principale del componimento è una critica delle lodi di progresso e civiltà rispetto alla grandezza dell'universo e della natura.
A quale forma metrica appartiene il componimento?
La ginestra è una canzone libera che per lunghezza e contenuto può essere definita poemetto didascalico.
Con quale figura retorica il poeta definisce la Natura "madre di parto e per voler matrigna" nel celebre verso 125?
La figura retorica contenuta nel verso è un chiasmo.
Da quale Vangelo proviene l'epigrafe in capo al componimento?
L'epigrafe è una citazione del Vangelo secondo Giovanni.
Fonti: libri scolastici superiori