Epicuro - La filosofia del piacere


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1) Introduzione
2) Lettura
3) Guida alla lettura
4) Guida alla Comprensione

Introduzione


Nel libro X delle Vite dei filosofi, Diogene Laerzio ci introduce alle preziose lettere di Epicuro, tra cui spicca quella indirizzata a un devoto discepolo di nome Meneceo. In questa epistola, Epicuro delinea i principi cardine per raggiungere e preservare la gioia suprema, identificando la felicità come il fine ultimo dell'esistenza umana, unendo questa condizione al piacere inteso come la liberazione dal dolore corporeo e dalla perturbazione mentale.

In poche ma dense pagine, Epicuro si rivolge al suo allievo, dispensando saggezza su come affrontare le paure primarie, discernere tra desideri meritevoli di soddisfazione e quelli che vanno respinti. Infine, incoraggia ad abbracciare la ragione come guida per bilanciare i piaceri e mette in guardia dall'illusione che la vita umana sia soggetta alle divinità o al destino.


Lettura


Epicuro a Meneceo: salve. Né quando uno è giovane esiti a filosofare, né quando è vecchio si stanchi di filosofare. Infatti, per nessuno, non è ancora il momento o non è più il momento di acquistare la salute dell'anima. Perché chi afferma che non è ancora il tempo opportuno per filosofare, o che questo tempo è ormai passato, assomiglia a chi dicesse che non è giunto ancora il momento per la felicità, o che non lo è più. Cosicché, deve occuparsi di filosofia sia un giovane sia un vecchio, il primo perché, invecchiando, possa essere giovane nei beni, in grazia di ciò che è stato, l'altro per essere, al contempo, giovane e anziano, in virtù della mancanza di paura verso quanto deve ancora avvenire nel futuro. Occorre, dunque, avere cura di tutto quanto produce felicità, se è vero, come è vero, che, quando essa è presente, abbiamo tutto, mentre, quando è assente, agiamo al fine di potere averla.

E quelle cose che ho continuato a raccomandarti, compile e àbbine cura, ritenendo che queste sono i fondamenti del vivere bene. In primo luogo, nella convinzione che Dio è un vivente incorruttibile e beato – ed è questa la concezione comune di Dio –, non attribuirgli nulla che esuli da questa incorruttibilità e neppure che esuli dalla beatitudine, bensì pensa di lui tutto ciò che è in grado di conservare questa sua beatitudine insieme con l'incorruttibilità. Infatti, gli dèi esistono, in quanto la cognizione che ne abbiamo è evidente: ma essi non sono come i più li considerano; infatti, non sanno mantenerli quali li concepiscono.

Ed è empio non chi nega gli dèi venerati dai più, ma chi ascrive agli dèi le opinioni dei più. Infatti, le asserzioni dei più riguardo agli dèi non sono prolessi, bensì assunzioni false. In conseguenza a ciò, sono attribuite agli dèi le maggiori sciagure per i malvagi e le maggiori fortune per i buoni. Infatti, essendo in tutto intimamente uniti con le loro virtù proprie, accolgono quelli simili a loro, considerando invece come estraneo tutto ciò che non è tale.

Abituati a pensare che la morte non è nulla per noi, poiché ogni bene e ogni male risiede nella sensazione: ebbene, la morte è privazione di sensazione. Perciò, la retta cognizione che la morte non è nulla per noi rende bene accetto anche il fatto che la vita finisce con la morte, [...] liberandoci dalla brama di immortalità. [...]

Cosicché, è stolto chi sostiene di temere la morte non perché porterà pena quando sarà presente, bensì perché porta pena mentre deve ancora venire. Infatti, ciò che non addolora quando è presente, non ha senso che addolori mentre lo si attende.

Dunque, il più orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi, poiché, per tutto il tempo in cui noi siamo, la morte non è presente; e invece, per tutto il tempo in cui la morte è presente, noi non siamo. Dunque, essa non riguarda né i vivi né i morti, poiché per i primi non c'è, e gli altri non sono più.

Ma la maggior parte delle persone talora fugge la morte come il più grande dei mali, talaltra, invece, la sceglie come mezzo per fare cessare i mali della vita. Il saggio, invece, né ricusa di vivere, né teme il non-vivere: infatti, non gli dà noia il vivere, e neppure ritiene che il non-vivere sia un male. E, come del cibo egli si sceglie non la porzione maggiore in assoluto, ma la più gustosa, così anche del tempo coglie non la parte più lunga, ma la più piacevole. E chi raccomanda al giovane di vivere in modo bello e al vecchio di morire in modo bello è uno sciocco, non solo per la piacevolezza della vita, ma anche perché è la stessa cosa la cura che si deve porre a ben vivere e quella che si deve porre a ben morire.

Molto peggiore, d'altra parte, è quello che dice:

«Bello è non essere nato, oppure, una volta nato, attraversare al più presto le porte [dell'Ade]»

Se, infatti, dice questo perché ne è davvero convinto, come mai non se ne va via dalla vita? Questo sarebbe, infatti, per lui a portata di mano, se fosse veramente sua ferma intenzione. Se, invece, la sua è una beffa, egli è uno sciocco, in questi argomenti non si ammettono beffe.[...]

Analogamente, bisogna considerare che, tra i desideri, alcuni sono naturali; altri, invece, vacui; e, tra i naturali, alcuni sono necessari, altri semplicemente naturali; e tra i necessari, a loro volta, alcuni lo sono in vista della felicità, altri, invece, in vista dell'assenza di dolore del corpo, altri ancora in vista della vita stessa.

Infatti, una infallibile considerazione di questi principi sa indirizzare ogni atto di scelta e di repulsa verso la salute del corpo e l'imperturbabilità dell'anima, poiché questo è il fine del vivere beatamente. È per questo scopo, infatti, che noi facciamo ogni cosa: appunto, al fine di non soffrire e non essere turbati dalla paura.

In effetti, una volta che sia tale la nostra condizione, ogni tempesta dell'anima si quieta, perché il vivente non deve camminare come verso qualcosa che gli manchi, né deve mettersi in cerca di qualcos'altro, grazie al quale sarà pienamente realizzato il bene dell'anima e del corpo. Invero, noi abbiamo necessità di piacere tutte le volte in cui soffriamo per il fatto che il piacere non è presente: invece, tutte le volte in cui non soffriamo per nulla, non abbiamo più bisogno del piacere.

E per questo diciamo che il piacere è il principio e il fine del vivere beato. Non per nulla, abbiamo riconosciuto il piacere come primo bene a noi connaturato, e a partire da esso improntiamo ogni scelta e ogni repulsa, e ad esso facciamo ritorno, quando usiamo l'affezione come criterio per giudicare ogni bene.

E poiché il piacere è il bene primo e connaturato, non ne scegliamo uno qualsiasi, ma ci sono casi in cui tralasciamo molti piaceri, quando da questi consegua per noi ciò che è più molesto; e consideriamo molti dolori migliori dei piaceri, qualora per noi tenga dietro un piacere maggiore, dopo che abbiamo sopportato per molto tempo i dolori. Dunque, ogni piacere, per il fatto di avere una natura a noi familiare, è un bene; ciò non di meno, non ciascuno va scelto; alla stessa stregua, per quanto ogni dolore sia un male, non sempre ciascuno di essi va evitato, per sua natura. Insomma, conviene valutare tutto ciò in base alla commisurazione e alla considerazione di quello che giova e di quello che non giova. Infatti, capita talora che trattiamo il bene come male, e, per converso, il male come bene.

E consideriamo l'autarchia come un grande bene, non perché in ogni caso vogliamo accontentarci di poco, ma perché, qualora non abbiamo il molto, possiamo accontentarci del poco, convinti sinceramente che godono dell'abbondanza nel modo più piacevole coloro che meno di tutti ne sentono il bisogno, e che tutto quanto è naturale è assolutamente facile da procurarsi, mentre quanto è superfluo è difficile da procurarsi.

E i semplici decotti d'orzo arrecano un piacere pari a quello di una dieta sontuosa, una volta che sia stata eliminata la sofferenza connessa con il bisogno; e il pane e l'acqua offrono il più alto piacere, nel caso in cui li accosti uno che abbia fame. L'abituarsi, dunque, a diete semplici e non dispendiose produce salute e nel contempo rende l'uomo pronto ad affrontare i bisogni necessari della vita, disponendoci meglio ad accostarci alle cene più prelibate che di tanto in tanto ci toccano; inoltre, ci rende impavidi di fronte alla sorte.

Dunque, allorché affermiamo che il piacere è il fine, non facciamo riferimento ai piaceri dei dissoluti e a quelli che risiedono nel godimento – come ritengono alcuni ignoranti che non sono d'accordo oppure che interpretano malamente –, ma il non soffrire nel corpo né turbarsi nell'anima.

Non sono, infatti, le bevute e i continui bagordi ininterrotti, né il godimento di ragazzini e donne, né il gustare pesci e altre cibarie, quante ne porta una tavola riccamente imbandita, che possono dar luogo a una vita piacevole, bensì il ragionamento assennato, che esamina le cause di ogni scelta e repulsa, e che elimina le opinioni per effetto delle quali il più grande turbamento attanaglia le anime.

Di tutti questi, il principio e il più grande bene è la saggezza, la quale risulta perfino più preziosa della filosofia, poiché da essa nascono tutte le altre virtù, in quanto insegna che non è possibile vivere piacevolmente senza vivere anche in modo saggio, onorevole e giusto, e, viceversa, non è neppure possibile vivere in modo saggio, onorevole e giusto senza anche vivere piacevolmente. Infatti, le virtù hanno un legame naturale con il vivere piacevolmente, e il vivere piacevolmente è inseparabile dalle virtù.

D'altra parte, chi ritieni che sia migliore di chi riguardo agli dèi nutre pensieri pii, rispetto alla morte ha un atteggiamento assolutamente privo di timore e ha meditato sul fine della natura? Egli sa bene quanto sia facile da raggiungere e da ottenere il limite estremo dei beni, e quanto il limite dei mali abbia breve durata e modesta intensità.[...]

Il saggio, poi, non considera la sorte come una divinità, alla stregua dei più – un dio, infatti, non compirebbe nulla di disordinato –, e neppure la considera una causa incerta – non crede, infatti, che un bene o un male frutto della sorte abbiano a che fare con il vivere beato, anche se da questa sono apprestati i principi di grandi beni o grandi mali –; ritiene invece che sia meglio patire una sorte avversa, serbando la ragione, piuttosto che godere di fortuna avendo perso la ragione: la cosa migliore, però, sarebbe che nelle azioni ciò che è stato oggetto di retto giudizio abbia un buon esito grazie alla sorte.

Medita, dunque, questi precetti e quelli ad essi affini, giorno e notte, fra te e te e anche con colui che è simile a te stesso, e mai, né da sveglio né in sogno, sarai turbato, ma vivrai come un dio tra gli uomini. Infatti, non assomiglia per nulla a un animale mortale un uomo che vive tra beni immortali.


Guida alla lettura


1) Quando si deve filosofare secondo Epicuro? Che cosa insegna la filosofia?
Secondo Epicuro, non c'è un momento specifico per filosofare; sia i giovani che gli anziani dovrebbero impegnarsi nella filosofia costantemente. La filosofia insegna a ragionare in modo assennato, ad esaminare le cause delle nostre scelte e delle nostre repulsioni, e a eliminare le opinioni che causano turbamenti nell'anima. Epicuro sostiene che il fine della filosofia è raggiungere la felicità, che coincide con il piacere inteso come assenza di dolore nel corpo e di turbamento nell'anima. Inoltre, la filosofia insegna che la saggezza è il principio e il più grande bene, da cui derivano tutte le altre virtù, e che è essenziale per vivere piacevolmente e in modo virtuoso.

2) Quali sono le cose che Epicuro ha già ripetutamente raccomandato a Meneceo?
Epicuro ha raccomandato ripetutamente a Meneceo diverse cose fondamentali:

Avere cura di tutto ciò che produce felicità, poiché la felicità è il fine ultimo dell'uomo.
Credere che Dio è un vivente incorruttibile e beato, e non attribuirgli nulla che esuli da questa incorruttibilità e beatitudine.
Abbandonare le opinioni comuni sugli dei, che spesso sono false e attribuiscono agli dei le fortune e le sciagure dei mortali.
Accettare la morte come privazione di sensazione e comprendere che non è nulla per noi, rendendo accettabile il fatto che la vita finisca con la morte.
Non temere la morte, poiché il più orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi, in quanto durante il tempo in cui viviamo, la morte non è presente, e quando la morte è presente, noi non siamo più.
Vivere in modo bello e morire in modo bello, non temendo né il vivere né il non-vivere.
Distinguere tra i desideri naturali e necessari e quelli vuoti e non necessari, scegliendo di soddisfare solo quelli che portano alla felicità e all'assenza di dolore nel corpo e di turbamento nell'anima.
Considerare il piacere come il principio e il fine del vivere beato, ma non necessariamente cercare tutti i piaceri, valutandoli sempre in base a ciò che giova e ciò che non giova.
Coltivare la saggezza come il principio e il più grande bene, poiché da essa derivano tutte le altre virtù e permette di vivere piacevolmente e saggiamente.

Questi sono i principi chiave che Epicuro ha ripetutamente raccomandato a Meneceo per raggiungere la felicità e vivere una vita soddisfacente e senza turbamenti.

3) Sintetizza la tesi di Epicuro sugli dèi.
La tesi di Epicuro sugli dèi si concentra sull'idea che gli dèi esistano come esseri incorruttibili e beati ma non sono coinvolti nelle vicende umane come spesso immaginato dalle persone comuni. Epicuro critica l'antropomorfizzazione degli dèi, sostenendo che attribuire loro passioni umane è empio. Gli dèi, secondo Epicuro, accolgono coloro che sono simili a loro, ossia virtuosi e considerano estraneo tutto ciò che non lo è. Questa concezione degli dèi come esseri beati e incorruttibili influisce sulla visione epicurea della vita e della morte, riducendo la paura e l'ansia associate agli eventi trascendentali.

4) Che cos'è la morte per noi?
Per Epicuro, la morte è privazione di sensazione. Questo significa che quando siamo morti, non abbiamo più sensazioni, né piacere né dolore. Pertanto, Epicuro sostiene che la morte non è nulla per noi durante il tempo in cui esistiamo, poiché durante la nostra vita la morte non è presente. Quando la morte è presente, noi non siamo più. In sostanza, Epicuro afferma che la morte non riguarda né i vivi né i morti, poiché per i vivi la morte non esiste e per i morti non c'è più nulla. Questa concezione serve a ridurre la paura della morte, poiché, secondo Epicuro, non ha senso temere ciò che non esiste durante la nostra vita.

5) Quali timori bisogna escludere per essere felici?
Per essere felici secondo Epicuro, bisogna escludere principalmente due timori:

La paura della morte: Epicuro spiega che la morte non è nulla per noi, poiché quando siamo vivi, la morte non è presente, e quando la morte è presente, noi non siamo più. Quindi, non riguarda né i vivi né i morti. La paura della morte non è dovuta al fatto che porterà dolore quando sarà presente, ma piuttosto al timore anticipato del suo avvento. Epicuro afferma che comprendere che la morte è privazione di sensazione e che non causa alcun dolore dovrebbe dissipare questa paura.
La paura degli dèi o del fato: Epicuro sostiene che gli dèi non sono preoccupati degli affari umani e che non intervengono nelle vite degli uomini. La paura degli dèi o del fato deriva spesso da false credenze e opinioni diffuse tra le persone. Epicuro invita a liberarsi da queste credenze e a non attribuire agli dèi le opinioni comuni riguardo al bene e al male. La ragione dovrebbe guidare l'uomo nella comprensione che la felicità dipende dalle proprie azioni e scelte, non dagli dèi o dal fato.

Quindi, per essere felici, Epicuro consiglia di escludere la paura della morte e la paura degli dèi o del fato, concentrandosi invece sul ragionamento assennato, sulla saggezza e sul perseguimento del piacere inteso come assenza di dolore nel corpo e di turbamento nell'anima.

6) Descrivi i tipi di desideri e i consigli di Epicuro in merito a ciascuno di essi.
Epicuro classifica i desideri in diversi tipi, distinguendoli per la loro natura e importanza nell'ottenere una vita felice e priva di dolore. Ecco una descrizione dei vari tipi di desideri secondo Epicuro e i suoi consigli relativi:

Desideri naturali e necessari: Questi sono i desideri fondamentali per la sopravvivenza e il benessere fisico, come il desiderio di cibo, acqua, riparo e amicizia. Epicuro consiglia di soddisfare questi desideri in modo moderato e razionale, senza eccessi né privazioni eccessive.
Desideri naturali ma non necessari: Questi sono desideri che non sono essenziali per la sopravvivenza, ma che possono contribuire al piacere e al benessere, come il desiderio di lusso o di piaceri sensoriali. Epicuro suggerisce di valutare attentamente questi desideri e di cercare di soddisfarli solo se non causano dolore o disturbo.
Desideri vuoti o vani: Questi sono desideri che non portano alcun vero beneficio o soddisfazione duratura, come il desiderio di ricchezza e fama senza scopo. Epicuro consiglia di evitare di lasciarsi trascinare da questi desideri superficiali, poiché possono portare più dolore che piacere.

Per Epicuro, il segreto per una vita felice risiede nel soddisfare i desideri naturali e necessari in modo moderato, evitando di lasciarsi trascinare dai desideri vuoti o superflui che possono portare al dolore. La saggezza consiste nel discernere tra i diversi tipi di desideri e nel perseguire solo quelli che contribuiscono veramente al benessere dell'individuo.

7) Come bisogna tener conto del dolore?
Secondo Epicuro, bisogna considerare il dolore come un male da evitare poiché contrasta con il piacere, che è il principio e il fine del vivere beato. Tuttavia, Epicuro distingue tra i diversi tipi di dolori e piaceri. Alcuni dolori possono essere necessari per raggiungere un piacere maggiore o per preservare la salute del corpo e l'imperturbabilità dell'anima. È importante valutare ogni situazione in base alla commisurazione di ciò che giova e di ciò che non giova, cercando di minimizzare il dolore e massimizzare il piacere nel perseguimento della felicità.

8) Che cos'è l'autarchia? E perché è un bene?
L'autarchia, secondo l'insegnamento di Epicuro, si riferisce all'autosufficienza o all'indipendenza interiore. È la capacità di essere contenti e soddisfatti con ciò che si ha, senza dipendere da eccessi o desideri insaziabili. Epicuro considerava l'autarchia un grande bene perché permetteva alle persone di vivere in modo sereno e libero da desideri incontrollati. Essere autosufficienti significa non essere schiavi delle ricchezze materiali o degli eccessi, ma piuttosto trovare la felicità nella moderazione e nella semplicità.

9) Che cos'è il quadrifarmaco e come va usato?
Il quadrifarmaco, o tetrafarmaco, è una delle principali dottrine etiche di Epicuro. Consiste in quattro principi o precetti fondamentali che Epicuro raccomandava ai suoi seguaci per condurre una vita felice e serena. Questi quattro principi sono:

Non temere gli dèi: Epicuro insegnava che gli dèi, se esistono, non sono interessati a infliggere punizioni o interferire nelle vite degli esseri umani. Pertanto, non c'è motivo di temerli.
Non preoccuparsi per la morte: Epicuro affermava che la morte non è da temere perché quando siamo vivi, la morte non è presente, e quando la morte è presente, non siamo più vivi. Quindi, non c'è nulla da temere né per i vivi né per i morti.
Il bene è facilmente ottenibile: Epicuro sosteneva che il piacere e il bene possono essere raggiunti attraverso semplici piaceri, come il cibo, l'amicizia e la soddisfazione delle necessità di base. Non è necessario perseguire l'abbondanza o l'eccesso per raggiungere la felicità.
Il male è sopportabile: Epicuro insegnava che il dolore fisico e emotivo è inevitabile nella vita, ma può essere sopportato con equanimità. Inoltre, il dolore è spesso di breve durata e modesta intensità, quindi non è da temere in modo eccessivo.

In sintesi, il quadrifarmaco di Epicuro è un insieme di principi etici volti a guidare le persone verso una vita felice e priva di turbamenti, incoraggiando l'equilibrio, la serenità e la ricerca di piaceri moderati.


Guida alla Comprensione


1) Spiega qual è l'effetto dell'allontanamento del timore degli dèi e della morte. Perché non si ha più ragione di temere il tempo che passa?
L'allontanamento del timore degli dèi e della morte ha un effetto liberatorio sulla vita umana secondo la prospettiva di Epicuro. Quando non si teme la punizione degli dèi o il tormento dopo la morte, si può vivere senza la costante apprensione per il futuro e senza la paura della fine. Questo permette all'individuo di concentrarsi sul presente e di godere appieno del piacere che la vita può offrire.
Quando non si ha più paura della morte, non si ha più ragione di temere il tempo che passa perché la morte non è più vista come una minaccia imminente. Epicuro afferma che la morte non è nulla per noi poiché mentre siamo vivi, la morte non è presente, e quando la morte è presente, noi non siamo più. Questa prospettiva fa sì che il tempo non sia più vissuto come un nemico da sconfiggere, ma piuttosto come un elemento naturale del ciclo della vita che non dovrebbe essere temuto o combattuto.

2) Che cosa significa concentrarsi nella gestione dei piaceri della vita?
Concentrarsi nella gestione dei piaceri della vita, secondo l'insegnamento di Epicuro, significa adottare una filosofia di vita che mira a massimizzare il piacere e minimizzare il dolore nel corpo e nell'anima. Questo non implica un perseguimento smodato del piacere attraverso l'indulgenza nei piaceri sensoriali o materiali, ma piuttosto una ricerca del piacere duraturo e autentico che porta alla felicità.

La gestione dei piaceri della vita implica una valutazione razionale dei desideri e delle scelte che li soddisfano. Epicuro distingue tra i piaceri naturali e necessari, come il cibo, l'acqua e l'amicizia, che contribuiscono alla felicità e al benessere, e i piaceri non necessari, come l'eccesso nel cibo o nel lusso, che possono portare a disagi e disturbi.

La saggezza epicurea consiste nel discernere tra i piaceri che portano vera felicità e quelli che portano solo momentanea gratificazione, nonché nel saper rinunciare a piaceri effimeri quando ciò comporta un maggior beneficio a lungo termine per il benessere fisico e mentale. In questo modo, concentrarsi nella gestione dei piaceri della vita significa adottare uno stile di vita moderato, equilibrato e razionale che conduca alla felicità e alla tranquillità dell'animo.

3) Spiega qual è la posizione del saggio di fronte alla sorte.
Secondo Epicuro, il saggio non considera la sorte come una divinità né come una causa incerta. Non vede la sorte come un'entità divina che compie azioni disordinate, poiché un dio non agirebbe in modo caotico. Inoltre, non crede che il bene o il male derivante dalla sorte influenzi direttamente la felicità, anche se la sorte può influenzare gli eventi della vita.

Il saggio, piuttosto, affronta la sorte con serenità e razionalità. Preferisce mantenere la ragione anche di fronte a una sorte avversa piuttosto che perdere la ragione pur godendo di fortuna. Tuttavia, il saggio riconosce che è preferibile che le azioni svolte con retto giudizio abbiano un buon esito grazie alla sorte.

In sintesi, il saggio epicureo accetta la sorte come parte della vita, ma non la vede come una forza divina o deterministica. Piuttosto, cerca di mantenere la calma e la razionalità di fronte agli eventi, cercando di vivere una vita guidata dalla saggezza e dalla serenità, indipendentemente dalle circostanze esterne.

4) Spiega come mai, in un'etica che ha per fine il piacere e la felicità, si prescrive tanta attenzione a contenere i desideri.
Nell'etica epicurea, nonostante il piacere sia considerato il fine ultimo e la felicità sia ricercata attraverso il raggiungimento del piacere, si prescrive tanta attenzione a contenere i desideri per diversi motivi:

Differenziazione dei desideri: Epicuro distingue tra desideri naturali e necessari, desideri naturali ma non necessari e desideri vani. I desideri naturali e necessari sono quelli essenziali per la sopravvivenza e il benessere, come il cibo e l'acqua. I desideri vani sono quelli che non portano veramente al piacere duraturo o alla felicità, come la ricerca del lusso o del potere. Epicuro consiglia di concentrarsi solo sui desideri naturali e necessari, in modo da non disperdere energie e risorse su cose superflue.
Evitare il dolore: Epicuro crede che la soddisfazione eccessiva dei desideri, soprattutto dei desideri vani, possa portare a un aumento del dolore e della sofferenza. L'eccesso di desideri può portare a un senso di insoddisfazione costante e alla dipendenza da piaceri effimeri, che alla lunga possono causare più dolore che piacere.
Cercare la tranquillità dell'animo: Contenere i desideri e ridurre le proprie necessità materiali può portare a una maggiore tranquillità dell'animo. Epicuro crede che la ricerca del piacere non debba essere intesa come una ricerca smodata di soddisfazione dei desideri, ma piuttosto come il raggiungimento di uno stato di equilibrio interiore e di serenità, che si ottiene attraverso la moderazione e la razionalità.

In sintesi, Epicuro prescrive la contenimento dei desideri non per negare il piacere o la felicità, ma piuttosto per guidare l'individuo verso una forma di piacere più duraturo e autentico, che non sia legato alla soddisfazione effimera dei desideri, ma alla realizzazione di uno stato di tranquillità e soddisfazione interiore.

5) Spiega quale ruolo assume la «saggezza» pratica in relazione al fine ultimo dell'uomo.
La "saggezza pratica" assume un ruolo fondamentale nella filosofia epicurea in relazione al fine ultimo dell'uomo, che è la ricerca della felicità. Epicuro considera la saggezza come il principio e il più grande bene, da cui derivano tutte le altre virtù. Questa saggezza non è solo un sapere teorico, ma piuttosto un'applicazione pratica del ragionamento assennato nelle scelte di vita quotidiana.

Nella prospettiva epicurea, la saggezza pratica implica l'abilità di discernere tra i piaceri veri e duraturi, che conducono alla felicità, e i piaceri superficiali e fugaci, che possono portare al dolore e al turbamento dell'anima. Significa anche comprendere che il piacere non deve essere cercato a tutti i costi, ma piuttosto equilibrato con altre virtù come l'onore, la giustizia e la sobrietà.

Inoltre, la saggezza pratica consente all'individuo di affrontare le sfide della vita con serenità e razionalità. Epicuro sostiene che il saggio non teme la morte né si lascia influenzare dalla fortuna, poiché mantiene salda la sua ragione e vive secondo principi etici solidi.

Pertanto, la saggezza pratica, nell'ottica epicurea, è essenziale per raggiungere il fine ultimo dell'uomo, che è la felicità attraverso il piacere inteso come assenza di dolore e turbamento, unita a una vita guidata dalla ragione e dall'equilibrio.

6) Spiega perché questo discorso viene paragonato a un farmaco: qual è la malattia? Come va somministrato? Quale salvezza ci si aspetta?
Il discorso di Epicuro viene paragonato a un farmaco perché propone una cura per la "malattia" dell'infelicità e del turbamento dell'anima. In questo contesto, la malattia è rappresentata dal dolore nel corpo e dal turbamento nell'anima, che impediscono all'individuo di raggiungere la felicità.

Il farmaco, quindi, è costituito dai precetti fondamentali di Epicuro, che insegnano come sottrarsi alle principali paure, distinguere tra i desideri da soddisfare e quelli da respingere, e lasciarsi guidare dalla ragione nel perseguire il piacere.

La somministrazione di questo "farmaco" consiste nella comprensione e nell'applicazione pratica dei precetti epicurei nella propria vita quotidiana. Questo implica una profonda riflessione sui concetti di piacere, saggezza e felicità, nonché un costante esercizio della ragione e del discernimento nell'affrontare le sfide della vita.

La salvezza attesa è la liberazione dalla sofferenza e dal turbamento, che permette all'individuo di vivere una vita felice e serena. Epicuro promette che seguendo i suoi precetti, l'individuo potrà raggiungere uno stato di imperturbabilità e godere dei piaceri che la vita ha da offrire senza essere schiavo delle proprie passioni o delle circostanze esterne.

Fonti: Zanichetti, libri scolastici superiori

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